Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
Davide Drusian sta presentando la sua recente pubblicazione "Il diario di fra Benvenuto Grava e altre testimonianze inedite sull'occupazione nazifascista a Motta di Livenza" in una serie di incontri serali in varie sedi della zona. Ha cominciato il 4 aprile all'auditorium di Rustignè di Oderzo, proseguendo poi l'11 aprile alla biblioteca comunale a Motta di Livenza, il 28 nella sala parrocchiale di Sant'Anastasio di Cessalto. Per chi non ha potuto ancora partecipare i prossimi appuntamenti saranno giovedì 8 maggio salle 20.45, presso il parco festeggiamenti di Malintrada di Motta di Livenza, e venerdì 16 maggio alle 20.45, all'auditorium comunale di Meduna di Livenza.
Il libro tratta del rastrellamento per rappresaglia che l’esercito tedesco mette in opera il 15 settembre 1944 a Ponte di Piave, Oderzo, Motta di Livenza e alcuni paesi della Bassa friulana, prelevando - soprattutto fra gli abitanti altolocati dei singoli paesi - cinquantaquattro ostaggi che vengono imprigionati nelle prigioni della caserma “Scipio Slataper” di Sacile. Vi resteranno per dodici giorni, in angosciosa attesa che i partigiani della zona rimettano in libertà quattro ingegneri tedeschi, addetti al controllo della linea ferroviaria, catturati a inizio mese. Fra Benvenuto Grava, padre guardiano dei frati francescani di Motta, è uno degli ostaggi e redige un diario scrupoloso di quella detenzione. Riportando giorno per giorno tutto ciò che accadde, il frate lascia un documento storico fondamentale per comprendere le ansie e le paure che si vivevano nel territorio dell’Opitergino-Mottense durante la guerra, con le nefandezze dei nazifascisti a far sempre da macabro sfondo.
Giacinto Bevilacqua, titolare delle edizioni Alba, ha inviato al blog degli storici del Friuli occidentale "lastorialestorie" un capitolo rappresentativo del libro di Davide Drusian con la foto di fra Benvenuto, la foto del ritrovo degli ostaggi nel 1954 e una foto d’epoca della Caserma Slataper di Sacile, a cui rinviamo | storiastoriepn.it/il-diario-di-fra-benvenuto/
![]() Il Cardinale La Fontaine lo ordina sacerdote il 21 luglio 1929 ai Tolentini di Venezia. Fatta eccezione per i sei anni trascorsi tra il convento di Lonigo e quello veneziano di San Francesco della Vigna, fra Benvenuto Grava spende la sua vita religiosa tra Gemona (dove morirà nea>l 1984) e Motta di Livenza, in qualità di insegnante e superiore. Durante il secondo conflitto mondiale è appunto guardiano della Basilica mottense e subisce, per mano tedesca, la triste sorte della prigionia. Il ritrovamento inaspettato del suo diario, ricco di dettagli storici e aspetti umani finora ignorati, apre una pagina inedita sull’occupazione nazifascista a Motta di Livenza. |
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Ogni mezzo è buono e questo (la bici) fa anche bene, al corpo e allo spirito.
Pre-testo e testo (scopo) questa volta è l'archeologia del territorio. La stagione invita. Perché mancare?
Di che cosa parliamo? Della prima edizione di Opitergium Archeo Bike Fest che propone quattro appuntamenti nel mese di maggio (sabato 3, sabato 10, domenica 11 e sabato 31) per pedalare alla scoperta degli elementi della storia e cultura locale rappresentati dalle evidenze e dalle tracce di archeologia romana dell'agro opitergino, di quello concordiese e dell'Altinate.
Viaggio a ritroso nel tempo tra gli scavi archeologici di Oderzo, prosperoso municipium romano che si estendeva dalle Prealpi fino alla Laguna Opitergina, dove sulla via Annia sorgeva l’antica Cilia Maris (Ceggia).
A Noventa di Piave si visita una curatissima area archeologica, inaugurata solo nel 2022, che risale al I secolo a.C.
Dalla città proto-rinascimentale di Portogruaro, seguendo il placido Lemene si giunge all’antica Iulia Concordia, disposta su una vasta area archeologica all’aperto di epoca romana e paleocristiana, con il pavimento musivo della Basilica Apostolorum e la famosa Trichora Màrtyrum (risalenti al IV secolo).
A Belfiore (l’antico Stajnbech) si visita il suggestivo complesso quattrocentesco di villa Dalla Pasqua, con annessi mulino e museo etnografico, immersi in un parco sul fiume Loncon.
Il percorso prevede una prima parte da affrontare in treno. Maggiori dettagli verranno forniti agli iscritti.
L'itinerario si snoda sopra l’argine del fiume Monticano, in vista del patrimonio naturalistico e paesaggistico e degli elementi storico architettonici che l'accompagnano.
La visita prosegue con il gruppo Athena entro della città archeologica di Oderzo e termina all’interno del ristorante Gellius che, in parte, è anche museo.
Antico municipium romano, Altino offre ora una ricca area archeologica con i resti della monumentale Porta-approdo, un cardine urbano, un quartiere residenziale, un tratto di strada urbana e una domus con il famoso "mosaico della pantera".
Transitando sulla ciclabile lungo il fiume Sile, si conoscerà la Restera, il percorso che si snoda sopra gli argini dell'antica via acquea dove i buoi trascinavano controcorrente i burci per condurli al porto fluviale di Treviso.
L'itinerario prevede una prima parte da affrontare in treno. Maggiori dettagli verranno forniti agli iscritti.
Giulio Ettore Erler (1876-1964). Una vita per la pittura
Grazie al recupero del repertorio di Giulio Ettore Erler progressivamente avvenuto negli ultimi anni, viene riproposta una nuova mostra completa delle sue opere, articolata in ben quattro sedi espositive d'eccezione visitabili fino al 25 giugno 2025.
L'esposizione propone quattro sezioni, coinvolgendo le sedi Portobuffolè, Oderzo e Treviso:
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[a. m.] Stoccafisso o baccalà? Quanto alla materia prima non c’è differenza: è sempre il merluzzo nordico (gadus morhua), pesce dalla carne bianca e dal gusto delicato. Ad essere completamente diverso tra l’uno e l’altro è il metodo di conservazione: lo stoccafisso è essiccato ai venti del Nord Europa, il baccalà è conservato sotto sale, entrambi antichi ma ben distinti metodi di lavorazione per conservare il cibo.
Per un’inversione linguistica mai del tutto spiegata, a Venezia, nel Veneto e nelle zone appartenute alla Serenissima (Bergamo, Brescia, Friuli, Istria, Dalmazia) lo stoccafisso – dal norvegese stokkfisk oppure dall’olandese antico stocvisch, (stock = bastone e visch = pesce), oppure dall'inglese stockfish, cioè pesce da stoccaggio, scorta, approvvigionamento, comunque mutuato dall'olandese antico, con lo stesso significato di "pesce bastone" - viene chiamato bacalà.
I prelibati bacalà mantecato (veneziano) e bacalà alla vicentina sono dunque fatti con lo stoccafisso. Nel versante tirrenico, invece, si è conservata la denominazione originaria: baccalà è il merluzzo sotto sale, non quello essiccato.
Il personaggio storico che ha segnato le sorti culinarie dello stoccafisso nella tradizione italiana è Pietro Querini, mercante, navigatore, nonché Senatore della Repubblica di Venezia nel XV secolo.
[a. m.] Pietro Querini è il nobiluomo capitano della caracca "Cocca Querina" partita da Creta il 25 aprile 1431 con a bordo sessantotto marinai, carica di vino, spezie e altre mercanzie di valore, diretta nelle Fiandre, mai giunta a destinazione, scomparsa a settembre all’imbocco della Manica e finita alla deriva nell’oceano in pieno inverno. A Venezia lo si crede morto, ma sorprendentemente, trascorsi ventuno mesi dalla partenza, ritorna in patria con i pochi compagni d’avventura rimasti, dopo un lungo percorso a piedi e a cavallo attraverso la Svezia e la Germania.
Che cosa era accaduto? La "Cocca Querina", sorpresa da ripetute tempeste dopo aver superato Capo Finisterre, disalberata e resa ingovernabile dai danni al timone, fu portata fuori rotta al largo dell'Irlanda sempre più verso ovest, per diverse settimane, e sospinta dalla Corrente del Golfo nei mari del Nord sopra il Circolo polare artico. Parte dei marinai aveva già perso la vita. L'equipaggio, il 17 dicembre 1431, decise di abbandonare il relitto semiaffondato ancora capiente di «800 barili di malvasia, cipressi lavorati, pepe, gengiovo, ed altre ricche merci», e si divise in due gruppi tirando a sorte, 21 sullo schiffo (una piccola scialuppa), 47 su una lancia più grande, compresi i tre ufficiali: il capitano e i due luogotenenti, Nicolò di Michiel, patrizio veneto, e Cristoforo Fioravante, comito. La prima barca di salvataggio sparisce presto col suo carico di uomini. La seconda scampa all'affondamento e, dopo altre settimane alla deriva fra razionamenti di viveri e morti continue, senza mai riuscire ad avvicinarsi ai sassosi scogli che intravedevano, approdano fortunosamente il 14 gennaio 1432 entro una «valle posta fra duoi prossimi monti» innevati dell'isola di Sandøy (un posto «in Culo Mundi» come lo chiamò con il suo linguaggio colorito nel diario il navigatore della Serenissima), nell’arcipelago norvegese delle Lofoten: non ci sono più che 21 sopravvissuti dei 47 saliti a bordo. Bivaccano sulla costa fino all'inizio di febbraio nutrendosi di molluschi e di un grande pesce spiaggiato, accendendo fuochi per scaldarsi, fino all'arrivo di soccorsi dagli abitanti dell'isola di Røst (chiamata Rustene dai veneziani) che, avendoli avvistati proprio grazie a quei fuochi, salvano gli ultimi 11 superstiti, essendo spirati nel frattempo altri loro compagni.
Rifocillati e curati, godono di disinteressata ospitalità nelle case dei pescatori («si dimostrarono molto benevoli – raccontarono Cristoforo Fioravante e Niccolò di Michiel nella loro relazione per il Senato della Serenissima – et serviziosi, desiderosi di compiacere più per amore che per sperare alcun servitio o dono»), convivendo in una per loro inusuale promiscuità di uomini e donne(1). Conoscono per la prima volta e assaporano i pesci secchi, duri come il legno, di cui si cibano gli isolani, i stocfisi, merluzzi fatti essiccare senza sale al vento e al sole propizi di quelle latitudini boreali e resi commestibili da un trattamento particolare: «quando i voleno mangiare l bateno con el roverso de la manara e fali come nervo, componeno butiro e specie per darli sapore». Lo stoccafisso è anche «grande e inestimabile mercadantia per quel mare de li Alemanii», perché una volta all'anno a maggio viene portato a Berge (Bergen) in Norvegia, «dove a quella muda di molte parti vengono navi ... cariche di tutte le cose che nascono in Alemagna, Inghilterra, Scoccia e Prusia, dico necessarie al vivere e vestire», per essere barattato con ogni genere di mercanzia di cui hanno bisogno.
A metà primavera, Pietro Querini e i suoi, rimessi in sesto dal generoso trattamento ricevuto, furono pronti per tentare di tornare a Venezia. Il 15 maggio del 1432, anch'egli s'imbarcò con i pescatori isolani diretto a Bergen, fornito di 60 stoccafissi essiccati come merce di scambio per assicurarsi le risorse per il viaggio, lungo e costoso. Fatto scalo a Trondheim, udendo che «gli Alemanni erano in guerra col re di Norvegia», ritenne prudente non andare più oltre e s'informò quale altra via più opportuna vi fosse per raggiungere la Germania oppure l'Inghilterra. Gli venne consigliato di andare a trovare un ricco veneziano di nome Zuane (Giovanni) Franco, fatto cavaliere dal re di Dacia (Svezia), proprietario di un castello a Stinchimborgo (Stegebord) nell'East-Gothland. Camminò cinquantatrè giorni verso levante per coprire i 700 km di distanza, sulla via che passava anche per Vadstena, terra natale di Santa Brigida(2). Accolto con simpatia e generosità dal concittadino, si trattenne presso di lui per qualche tempo, finché alla «solenne festa e indulgenza di santa Brigida», celebrata ogni primo d'agosto (dove «innumerevoli persone da ogni parte come Alemagna, Olanda, Scozia, fin oltre da 600 miglia erano concorse»(3)) venne a sapere che al porto di Lodese, distante 8 giornate, «v'erano due navi, una per Alemagna ossia per Rostoch, l'altra per Inghilterra». Ricevuti aiuti e cavalli dal loro ospite, per primi partirono per la Germania Nicolò di Michiel, Cristoforo Fioravante e Ghirardo da Vinsescalco, e pochi giorni dopo, il 14 settembre, Querini con gli altri sette per l'Inghilterra. Sbarcati all'Isola di Ely, passarono per Cambris (Cambridge) e arrivarono a Londra, trovando ospitalità per due mesi presso l'allora potente comunità veneziana che risiedeva sul Tamigi. Venezia non era più un miraggio. La raggiunse finalmente il 12 ottobre 1432, cavalcando per 24 giorni attraverso l'Europa, via Basilea, accompagnato da Girolamo Bragadin, uno dei mercanti londinesi.
Non aveva dimenticato di essere un mercante, portando dai lontani mari del Nord alcuni esemplari di stoccafisso. Tentò di proporne al Senato acquisti massicci come provvista da imbarcare - per le sue caratteristiche di conservazione nel tempo - sulle navi della Serenissima Repubblica. Con scarso successo per la verità... Comunque, l'anno seguente, convinto che prima o poi lo stoccafisso avrebbe sfondato anche sulle terre controllate da Venezia, Querini tornò dai suoi amici di Røst(4) per scambiare vino e spezie con stoccafisso.
Note
I racconti originali del naufragio della Cocca Querina, tramandati dai codici manoscritti - quello di Pietro Querini, patrone della nave, dal Codice Vaticano Vat. Lat. 5256 (Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana) collazionato col frammento marciano It. XI 110 7238 (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana) e quello di Cristofalo Fioravante, uomo di consiglio, e Nicolò de Michiele, scrivano, dal Codice marciano ms. It. VII 368 (7936) scritto «per lo riferire», cioè raccolto, dall’umanista fiorentino Antonio di Corrado de Cardini - sono stati pubblicati per la prima volta integralmente e tra loro messi a confronto (Viella, 2019) con edizione, note e cura di Angela Pluda che ne aveva già fatto oggetto di tesi di laurea nel 2007 presso l'Università di Padova con la supervisione del prof. Manlio Pastore Stocchi. Il volume ancora facilmente reperibile è: “Infeliçe e sventuratta coca Querina”. I racconti originali del naufragio dei Veneziani nei mari del Nord, Edizione e note a cura di Angela Pluda, Introduzione di Andrea Caracausi e Elena Svalduz, Viella, 2019 | viella.it/libro/9788833130996
Le due relazioni di Pietro Querini e dei suoi luogotenenti sono state conosciute e lette soprattutto nella versione rielaborata sui manoscritti originali da Ramusio inserita un secolo dopo nel secondo volume della raccolta Delle navigazioni et viaggi, in prima edizione nel MDCLIX (1559) in Venetia nella Stamperia de Giunti: Il naufragio di M. Pietro Quirino gentilhuomo Venetiano, portato per fortuna sessanta gradi sotto la Tramontana. Ramusio è un «abile manipolatore» (Angela Pluda, p. 24): lingua, sintassi e contenuti sono spesso alquanto diversi, per volontà non certo di falsificazione, ma di normativizzazione linguistica (regolarizzazione della grafia, toscanizzazioni di desinenze verbali e lessemi, sistemazioni sintattiche, aggiunta di informazioni e dettagli, riesposizioni più ampie o più sintetiche di blocchi di testo, drammatizzazione di scene che originariamente sono di natura più prosaica, amplificazione del concetto della “misericordia di Dio” quando si determina una svolta del corso degli avvenimenti da negativo a positivo…) a garanzia di maggiore diffusione e leggibilità dei contenuti. Il veneziano popolare del Fioravante e del De Michiele come pure il dialetto più controllato di un nobile veneziano fornito di istruzione scolastica qual era Querini, unitamente a un certo disordine espositivo, non erano il veicolo più consono per raggiungere un pubblico non solo veneziano e non solo di medio-bassa cultura.
L'opera di Ramusio si può leggere nelle edizioni Cinquecentine o in quella curata da Marica Milanesi per Einaudi (1978-1988)
Prima che Ramusio lo desse alle stampe, il viaggio di Querini veniva ricordato nel famoso Mappamondo di fra’ Mauro (1457-1459): «questa provincia di Norvegia scorse misier Piero Querino come e noto». Nei secoli successivi il diario di viaggio fu segnalato dapprima nell'Ottocento (1818 e 1881) e successivamente negli anni Trenta del Novecento. Agli anni Cinquanta risale una mostra documentaria sui navigatori veneti insieme ai più famosi Pigafetta e Magellano.
In tempi recenti s'è registrato nuovo interesse per la storia del naufragio della Querina, legato alla duratura tradizione della narrativa di viaggio e alla cultura gastronomica. La rinnovata fortuna divulgativa del diario del comandante della Querina è infatti dovuta non secondariamente al racconto della pesca, della conservazione e del consumo dello stoccafisso. Di queste riprese "romanzate", che attingono ora dai manoscritti ma più spesso dal testo del Ramusio, restano godibili
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[a.m.] Dopo il periodo di profugato con la famiglia a Sermide (MN), il padre avviò il ragazzo a bottega presso il pittore e decoratore Giuseppe Moro. Le qualità dimostrate lo portarono a frequentare prima il Liceo artistico di Venezia poi a iscriversi all'Accademia di belle arti, seguendo per i primi tre anni come maestro di figura Ettore Tito.
Le prime rilevanti esperienze furono nell'ambito dell'arte sacra. Nel 1925, appena ventenne, vincitore in un concorso, ebbe l'incarico di eseguire la pala del santo per la riedificata Chiesa di San Cristoforo di Tonezza del Cimone (VI), andata completamente distrutta nei furiosi combattimenti che sconvolsero la zona durante la prima guerra mondiale. Dal pittore e architetto trevigiano Antonio Beni - che aveva un ruolo importante nell'opera di ricostruzione degli edifici sacri distrutti - impedito da problemi di salute, gli fu affidato anche il completamento delle pale d'altare, già approvate in bozzetto dalla Commissione d'arte sacra, per le chiese della diocesi di Treviso danneggiate.
Affrontò in seguito anche la figurazione storico-patriottica, quando nel 1930, durante il servizio militare come sottotenente del 55º Reggimento fanteria "Marche", dipinse su incarico dei suoi superiori due grandi tele raffiguranti gli episodi della morte di Edmondo Matter e Cesare Colombo(1), entrambi caduti sul Carso e medaglie d'oro al valor militare alla memoria, e il Ritratto del Colonnello Rossi.
Per la reputazione nell'ambito della pittura storica di impostazione celebrativa, nel 1934 gli furono commissionati quattro grandi pannelli per la sala consigliare del palazzo Comunale di Oderzo che illustravano episodi e personaggi della cittadina lungo la sua millenaria vicenda.
Chiamato alle armi nel periodo della seconda guerra mondiale, dovette abbandonare temporaneamente il lavoro e ritornò a Treviso solo dopo l'armistizio. Il suo studio andò distrutto nel bombardamento di Treviso del 7 aprile 1944 e fu costretto a lavorare temporaneamente a Dosson nello studio di Antonio Beni (morto nel 1941)
Nell'immediato dopoguerra partecipò alla vita amministrativa della città. Eletto consigliere comunale nella lista della Democrazia Cristiana come indipendente, fece parte della giunta comunale prima come assessore supplente all'edilizia, poi come assessore effettivo ai servizi generali, e restò membro della Commissione edilizia per la toponomastica cittadina per circa un ventennio. In quel periodo gli fu anche proposta la candidatura a deputato parlamentare, ma rifiutò per non abbandonare il suo lavoro.
Negli anni sessanta, diminuite drasticamente le commissioni di arte sacra dopo il Concilio Vaticano II, si diradò anche il suo intervento in questo ambito e si dedicò maggiormente alla pittura paesaggistica e alla natura morta e proseguì nella ritrattistica. Fu l'occasione per allestire alcune mostre personali: la sua prima nel febbraio 1968 e la seconda a gennaio-febbraio del 1971, entrambe ospitate dalla galleria Giraldo di Treviso. A luglio dello stesso anno moriva per un infarto.
Alla fine del 1978 il Comune di Treviso organizzò presso il Museo Ca' da Noal la mostra retrospettiva Gino Borsato, la sua terra e la sua gente, curata dal critico d'arte Luigina Bortolatto.
Note
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