Museo Bailo - Fino al 4 febbraio 2024 | museicivicitreviso.it/.../juti-ravenna-1897-1972-un-artista-tra-venezia-e-treviso
La retrospettiva, a cinquantanni dalla scomparsa, dedicata a Juti (Luigi) Ravenna, pittore e critico d’arte annonese - a partire dall'importante nucleo di opere che la Pinacoteca del Museo Bailo conserva - era stata annunciata ufficialmente per la scorsa primavera (da febbraio a maggio).
La mostra contemporaneamente dedicata allo scultore Arturo Martini, da poco conclusa, ne aveva comportato la sospensione e posticipazione, senza però un'adeguata informazione al pubblico, tanto che non pochi - anche non trevigiani - presentatisi al Bailo per vedere Juti Ravenna scoprivano solo una volta arrivati lì che non c'era. Un fatto che ha lasciato molte perplessità.
Ora, tuttavia, è da accogliere con piacere che non si è trattato di un rinvio sine die, e la retrospettiva (composta da 110 opere tra disegni e dipinti) è stata davvero inagurata sabato 14 ottobre e durerà fino al 4 febbraio 2024.
Accanto alle informazioni che si possono raccogliere in questi giorni sulla stampa e sul sito dei Musei Civici di Treviso, mi sembra giusto riproporre la breve presentazione con cui la collega annonese Ada Toffolon, già sindaca della cittadina, aveva attirato l'attenzione e invitato in primavera alla visita.
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[Ada Toffolon] Si è aperta il 3 febbraio scorso al Museo Bailo di Treviso la mostra dedicata al pittore Juti (Luigi) Ravenna. Il titolo "Juti Ravenna (1897-1972) da Annone a Venezia a Treviso" riassume il percorso umano e artistico di questo esponente della pittura veneta del Novecento, che nacque a Spadacenta di Annone Veneto e concluse a Treviso i suoi giorni nel 1972.
Il paese natale dedicò a questo suo figlio illustre una mostra retrospettiva in occasione dei cento anni dalla nascita e l’anno scorso, per i 50 anni dalla morte, lo ha ricordato con un convegno. Nella rassegna allestita nel 1997, a cura di Franco Batacchi, veniva presentato come un «antidivo, mai mondano, schivo e appartato», che, per dirla con le parole di Vittorio Sgarbi, «combatteva il destino di dimenticato in vita».
Rileggendo gli appunti biografici emerge una vita dedicata all’arte: aveva vent’anni quando, soldato nella prima guerra mondiale, tracciava i suoi schizzi raffiguranti scene dal fronte.
Nel 1920 è tra i giovani artisti di Ca’ Pesaro a Venezia e, contemporaneamente, frequenta l’Accademia di Belle Arti. Espone più volte nella città lagunare, dove conosce e frequenta tra gli altri Gino Rossi e Pio Semeghini.
A Venezia vive a Palazzo Carminati, grazie al sostegno che l’Opera Bevilacqua La Masa riservava ai giovani artisti poveri ma meritevoli e, oltre ad ospitarli, organizzava mostre dei loro lavori. Negli anni tra le due guerre espone, oltre che a Venezia, a Firenze, a Padova, a Fiume.
A Venezia per un certo periodo divide l’alloggio con Filippo de Pisis, presentatogli dal poeta Vincenzo Cardarelli, esegue su commissione pale e affreschi per il Duomo di S. Donà di Piave, per la cappella del Collegio Alighieri di Vittorio Veneto, per la residenza privata di Giovanni Comisso, per una villa privata di Castelvecchio.
In questo periodo conosce Giovanni Mesirca, medico e critico d’arte, il suo maggiore amico ed estimatore, «affascinato dal mistero di un uomo che rinuncia al mondo per dedicare la sua vita all’arte» come scrisse Batacchi a proposito di questa amicizia, pure fondamentale per far conoscere agli studiosi la figura di Juti Ravenna.
Nel 1947 si trasferisce a Treviso, forse perchè «lo strutturalista Ravenna, severo difensore del coerente rapporto tra costruzione della forma ed uso del colore in relazione alla superficie» non si ritrova più nel nuovo vento culturale che soffia su Venezia. E trova più congeniale la città del Sile «con la sua forte corrente realista, naturalistica o figurativa». È lo stesso Juti a scrivere che a Treviso «il clima prodigioso e la cordialità della gente furono stimoli risolutivi al mio lavoro sereno e proficuo».
Una stagione feconda che lo vede protagonista di varie mostre tra cui la rassegna di Palazzo Strozzi a Firenze sulla Pittura italiana della prima metà del Novecento; nel 1969 pubblica il volume Juti Ravenna, una vita per la pittura, curato da Mesirca per le edizioni Rebellato, che raccoglie numerosi contributi critici dell’artista.
Dopo la morte, 1972, la sua opera trova spazio in varie esposizioni, come la retrospettiva del 1992 a Ca’ dei Carraresi con il catalogo curato da Marco Goldin. Mentre lo stesso museo Bailo ospita nella sua pinacoteca un importante nucleo di sue opere.
Nell’omaggio che ancora una volta, ma sono passati anni e generazioni, la sua città di adozione gli dedica, viene giustamente rivalutata la fase iniziale del suo percorso: gli anni in cui giovanissimo apprende il disegno alla Scuola Arti e Mestieri di Motta e comincia a dipingere i volti e i luoghi della sua Spadacenta. L’opera di Juti Ravenna è stata avvicinata al "post impressionismo veneto", che accomuna molti giovani artisti della cerchia veneziana, e si trasferisce nel lirismo pittorico dei paesaggi, nelle luci, nei colori e nelle atmosfere che dalla campagna annonese a Venezia e poi a Treviso ne hanno definito la cifra stilistica.
[ Ada Toffolon, Un Annonese da riscoprire: Juti Ravenna "antidivo, mai mondano, schivo e appartato", «Il Popolo», 19 marzo 2023, p. 24 | Leggi pdf]
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Info
Domenica 26 febbraio presso la Sala Auditorium del Museo del Duomo di Oderzo, alle ore 17, Raffaello Padovan presenterà Le memorie del pittore Giulio Ettore Erler, un'autobiografia inedita. Introdurrà Maria Teresa Tolotto, direttrice dell'Archivio e del Museo del Duomo.
Giulio Ettore Erler (Oderzo, 1876 - Treviso, 1964), trasferitosi a Treviso,visse e operò, fino al 1944 negli spazi interni di Porta Santi Quaranta, e fu insegnante di disegno presso il "Riccati" ma, venuto in contrasto col regime fascista, abbandonò l'insegnamento alla fine degli anni venti. Fu amico e sodaIe di gran parte delle varie personalità della cultura, non solo artistica, trevigiana della prima metà del XX secolo.
Erler raccolse in una serie di quaderni i ricordi delle esperienze di vita dei suoi primi cinquant'anni circa. La lettura di quei manoscritti (poi dattiloscritti dalla sua collaboratrice Irma Simioni) ci permette di entrare e vivere nel clima di un periodo storico che va dall'ultimo trentennio del XIX secolo ai primi due decenni del successivo, visto tuttavia con gli occhi di un pittore e forse per questo più singolare e interessante. Si ritrovano curiosi aneddoti inaspettati relativi ai maestri di due Accademie di Belle Arti, quella veneziana e quella milanese, che Erler frequentò da studente e pure da insegnante. Così come taluni episodi storici ben conosciuti, da lui vissuti in prima persona, quale ad esempio la storica e tragica vicenda della repressione della sommossa popolare per ordine del generale Bava Beccaris e le immagini della Treviso sotto i bombardamenti austroungarici della Prima Guerra Mondiale.
Sabato 21 gennaio alle ore 17 ad Oderzo, presso il cinema Turroni, Il Museo del Duomo di Oderzo e Antiga Edizioni presentano Carteggio inedito tra i pittori Giambattista Carrer e Leonardo Gavagnin con Gerolamo Sugana nobile trevigiano, curato da Raffaello Padovan. Interverrano Maria Teresa Tolotto e Andrea Simionato.
L’interesse creatosi attorno alla mostra di Paris Bordon aperta al Museo di Santa Caterina a Treviso (dal 16 settembre 2022 al 15 gennaio 2023) è il clima adatto per inserire la conferenza e la presentazione delle immagini, che si terranno a Treviso presso la Sala Rosso Coletti del Museo di Santa Caterina, il 21 dicembre prossimo (sotto l’egida del Comune di Treviso, dei Musei Civici trevigiani e dell’Ateneo di Treviso), come anticipazione di una ricerca in corso di Guerrino Lovato, Maria Teresa Tolotto e Claudio Rorato, su una nuova ipotesi attributiva degli affreschi esterni del 1524 e 1525 che ornano i palazzi Saccomani e Salvini a Oderzo.
Ogni occasione espositiva come questa straordinaria su Paris Bordone - che sistematizza il punto di approdo della ricerca critica allo stato attuale – può e deve suscitare anche sollecitazioni ad andare oltre, a riverificare e percorrere-ripercorrere i fondamenti del già noto, a non impedirsi nuove perlustrazioni.
Vedo in questa luce l’ “incursione” del vulcanico iconologo Guerrino Lovato, che ho potuto conoscere nella godibilissima conferenza di domenica 4 dicembre a Oderzo a proposito della rappresentazione nell’arte della figura della “levatrice incredula” presente nelle scene della Natività, ispirate dalla narrazione del Protovangelo di Giacomo e della Legenda Aurea.
Guerrino Lovato, in campo iconografico, agisce con l’occhio e il fiuto di un detective che - estraendo dal proprio interno database popolato di migliaia di iconografie ed iconologie pittoriche e scultoree - compara esemplari, stili individuali e di scuola, simbologie ed allegorie profane e sacre, il tutto rapportato alle culture storicamente determinate che le producono e a cui vanno commisurate. Reduce dall’aver visitato la mostra trevigiana dedicata a Paris Bordon, è da pensare così l’eureka che deve essergli scattato quando, esaminando quel che resta visibile degli affreschi della facciata esterna di Palazzo Saccomani in Piazza Grande e di Palazzo Salvini in Via Umberto I, questi gli hanno evocato uno stile ri-conosciuto: il nome del frescante a cui attribuire i dipinti – rimasto finora irrisolto ma con la probabilità che sia lo stesso per entrambi gli edifici – non avrebbe potuto essere proprio Paris Bordone?
Guerrino Lovato ha chiesto collaborazione a Maria Teresa Tolotto per una articolata “indagine” d’archivio. La sola “illuminazione” iconografica e stilistica non poteva bastare. Per insistere sull’ipotesi attributiva era indispensabile stanare qualche fondamento storico-documentale.
A una settimana dall’appuntamento di presentazione dei risultati di questo lavoro al Museo di Santa Caterina a Treviso, ho chiesto – all’esperta archivista e studiosa di storia locale sia laica sia ecclesiale – che cosa e come abbia ricercato e come e se sia riuscita a corroborare la pista “Paris Bordon”.
Tolotto non è stata avara di informazioni, com’è suo stile e come le detta il suo piacere di condividere le conoscenze e i dati storici che spesso “resuscita” col suo scavo archivistico.
«Guerrino Lovato ha visto nelle immagini, o meglio in quel che resta di quelle immagini, la mano e la fantasia “costruttiva” di un giovane genio quale il Paris. Ha affiancato l’esame di stampe di inizio '500 (essendo le date ricavabili dai due palazzi opitergini il 1524 e il 1525) per cogliere la composizione e il messaggio iconografico che il committente voleva esprimere con questo lavoro. Ma soprattutto ha riletto le immagini contestualizzandole nella storia della città e di alcuni elementi con i quali questa da sempre convive, primo tra tutti l'acqua e – in questo caso, ancor più specificamente - i mulini.
Dal canto mio ho riveduto i documenti, per altro già pubblicati in calce al catalogo stampato nella precedente mostra a Treviso su Paris Bordon, “Codice diplomatico bordoniano”, curato da Giorgio Fossaluzza (in Paris Bordon, Catalogo della mostra - Treviso 1984, A cura di Eugenio Manzato, Electa, Milano, 1984, pp. 115-140) nel quale sono riportati i documenti d'archivio relativi al pittore e la biografia scrittane dal Vasari.
La rilettura è partita per cogliere, in prima analisi, chi e in quali fondi questi documenti erano conservati, per capire se il Paris avesse un Notaio di riferimento con il quale stendesse atti e commesse; e congiuntamente continuare a consultare quel fondo se per caso c'erano dei collegamenti con Oderzo. Sono passata poi - visto che solitamente non usa lo stesso notaio se non per cose strettamente private e relative alle sue proprietà - a considerare tutte le informazioni che queste trascrizioni potevano darci. Non ho tralasciato né il carattere dell'artista come emerge dalla biografia (che lo descrive come uomo schivo, non incline ad ingraziarsi i clienti e per questo costretto ad accogliere tutti i lavori che gli si presentavano) né le diverse commesse che gli sono arrivate attraverso i parenti della moglie che avevano relazioni di parentela con pittori.
Partendo da questa considerazione, supportata dal fatto che anche alla stesura del suo testamento la moglie di Paris sceglie un cugino della famiglia dei Licino (Arrigo Licino) per controfirmare le sue volontà e che in Augusta (Augsburg, in Baviera) lavorarono sia il Paris che Giulio Licino, figlio di Arrigo, ho cercato di definire le tre diverse botteghe (Paris, Licino e Pordenone) e le possibilità di una collaborazione tra loro.
Cosa che si è subito presentata ardua perché il Vasari confonde la vita e le opere dei Licino con Pordenone (Zanantonio Licino da Pordenone, dove pare sia nato, con Zanantonio de Sacchis detto il Pordenone). Consultati altri biografi, la questione non si è chiarita del tutto ma ci ha permesso di fare altre supposizioni che attendono sicuramente la conferma di documenti da cercare con pazienza nei fondi notarili …
Tra queste in particolare abbiamo soppesato anche la possibilità di collaborazione ipotizzabile in Oderzo nei primi anni della vita lavorativa di Paris, perché le date 1524-1525 dipinte nei due palazzi opitergini riflettono il modo con cui egli firmava le sue opere posponendo alla sua firma la data in numeri romani. Altro riscontro che ha attirato la nostra attenzione è poi quello che ci hanno aperto gli Estimi della città di Oderzo del 1550, conservati presso l’Archivio di Stato di Treviso. Chi era e a quale famiglia apparteneva lo “Zanantonio depentor”, registrato tra i residenti nella piazza di Oderzo in affitto dal signor Barbieri? Documenti come “stati delle anime” e “libri canonici” della parrocchia di Oderzo non ci possono aiutare, perché cominciano dopo il 1565. Quest’inquilino di Oderzo potrebbe essere il pittore Zanantonio Licino (di cui il Vasari ricorda che negli anni tra il 1520 e 1525 fu costretto, a causa di “pestilenze” non ben definite, a lavorare nel contado per “contadini” dove esperimenta e si specializza negli affreschi) e Paris potrebbe già aver lavorato con lui?»
Maria Teresa Tolotto ha chiaro che molti sono ancora i punti in sospeso e molte verifiche sono ancora da fare, ma dà senso al suo essersi impegnata in questi termini: «provo a percorrere altre strade per capire se queste possano portare ad ampliare le conoscenze, per evitare non le medesime conclusioni, fatte da autorevoli critici d'arte, ma per non ripetere, come è capitato per la “confusione” fatta dal Vasari che si è trascinata fino agli inizi del 1900, la “perpetuazione” di errori e confusioni».
Le anticipazioni di Tolotto generano appeal sufficiente per non mancare alla conferenza. Ci aspettano anche le attese analisi e interpretazioni iconologiche comparate che curerà Guerrino Lovato (sulle quali non vogliamo togliere la sorpresa).
Il libro recente di Guerrino Lovato e Pino Usicco (la Toletta Edizioni, 2022) racconta chi sono i personaggi raffigurati nelle sculture e nei bassorilievi scolpiti negli archi delle Procuratie e della Marciana (e i loro significati spesso dimenticati o sconosciuti).
Presentazione, a Treviso, con gli autori, mercoledì 7 dicembre, ore 17, presso palazzo Rinaldi, Sala Verde.
Dal 16 settembre 2002 al 15 gennaio 2023 sarà aperta al Museo Santa Caterina di Treviso la grande mostra (rinviata a causa delle restrizioni anticovid della primavera scorsa) “PARIS BORDON 1500-1571. PITTORE DIVINO”.
Al "Divin Pitor" (come lo definiva lo storiografo veneziano Marco Boschini col termine usato solo per Raffaello e Tiziano) è dedicata la più ampia monografica mai realizzata finora, riunendo i capolavori dell'allievo di Tiziano provenienti dai più prestigiosi musei del mondo: l’Ermitage di San Pietroburgo, la National Gallery di Londra, il Louvre di Parigi, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, l’Ashmolean Museum di Oxford, le Gallerie degli Uffizi di Firenze e i Musei Vaticani...
La rassegna ne racconterà la varietà e la ricchezza della produzione attraverso i suoi sensuali ritratti femminili – dai primi, fortemente influenzati da Palma il Vecchio e Tiziano a quelli più tardi segnati da un sofisticato manierismo – attraverso le rappresentazioni mitologiche, le splendide allegorie, le scene sacre delle grandi pale d’altare e le piccole opere destinate alla devozione privata. In occasione dell’esposizione verrà, inoltre, appositamente restaurata la monumentale pala d’altare San Giorgio e il drago, proveniente dai Musei Vaticani.
A completamento della visita, un itinerario di confronti e rimandi, inviterà a riscoprire capolavori disseminati all’interno del territorio trevigiano e veneto come la meravigliosa Consegna dell’anello al doge di Paris Bordon, conservata alle Gallerie dell’Accademia di Venezia.
La mostra è accompagnata dal catalogo edito da Marsilio Arte | marsilioeditori.it/.../paris-bordon-pittore-divino
Il sito della mostra: mostraparisbordon.it
Alberto Martini e la Divina Commedia:
"visse paradisiaco o infernale nei miei sogni"
Dal 1° maggio al 30 giugno 2022, a Palazzo Foscolo, Oderzo, è predisposto un nuovo allestimento temporaneo dei lavori grafici e pittorici di Alberto Martini che illustrano la Divina Commedia.
Alberto Martini, che nella sua carriera si è dedicato all’illustrazione di varie opere letterarie, ha mantenuto per quarant’anni un rapporto privilegiato con la Divina Commedia di Dante Alighieri, testimoniato dalle 298 tavole conservate nella Pinacoteca Martini che costituiscono il fondo più corposo dedicato all’artista.
Il percorso espositivo evidenza come Martini, dal punto di vista stilistico, si qualifica quale vero grande interprete del poema dantesco, capace di rileggerne l’opera restituendone i singoli episodi attraverso un segno espressionista all’interno di uno spazio peculiarmente sintetico e visionario.
D’altra parte, l’artista ritornerà in molte occasioni sull’opera dell’Alighieri, dichiarandosene profondo estimatore: «Tre volte, nella mia vita, seguii religiosamente il Divino Poeta attraverso i tre mondi … Il Poema Sacro mi fu sempre di grande conforto, a volte mi placò e visse paradisiaco o infernale nei miei sogni».
APERTURA STRAORDINARIA DOMENICA 1° MAGGIO
dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 19.00.
Ingresso con biglietto ridotto euro 4,00.
Museo Bailo di Treviso / Pinacoteca Alberto Martini
Dal 18/12/2021 al 27/03/2022
Ripropongo un post dell'anno scorso - tra storia, arte e leggenda - per la "piccola estate di san Martino" di questi giorni («L’istà de San Martin dura tre dì e un pochetin») ...
«Far San Martin». In una società non più prevalentemente agricola e povera, l'espressione ha quasi perso significato, ma fino agli anni sessanta del Novecento rappresentava ancora un'esperienza patita con sofferenza dalle famiglie contadine e uno spettacolo struggente anche per chi osservava i loro forzati traslochi. L'usanza era atavica. Il quadro del pittore cremonese Vincenzo Campi, Il sanmartino, ritrae uno di questi traslochi nell'ultimo quarto del Cinquecento.
Nel calendario rurale l'11 novembre, ricorrenza di San Martino, faceva da spartiacque tra un'annata agraria, dopo la semina, e la successiva. Quando i contratti di mezzadria o affittanza venivano sciolti, segnava il termine ultimo per lasciare il fondo e il casolare. La disdetta, ricevuta solitamente a maggio, in anticipo di un semestre sulla scadenza, costringeva il capofamiglia all'ansiosa ricerca di un nuovo contratto e una nuova sistemazione nello stesso comune o, al più, tra paesi vicini - se questa riusciva - senza sicurezza di conservare o migliorare le condizioni lavorative e abitative che abbandonava.
«Far San Martin». In una società non più prevalentemente agricola e povera, l'espressione ha quasi perso significato, ma fino agli anni sessanta del Novecento rappresentava ancora un'esperienza patita con sofferenza dalle famiglie contadine e uno spettacolo struggente anche per chi osservava i loro forzati traslochi. L'usanza era atavica. Il quadro del pittore cremonese Vincenzo Campi, Il sanmartino, ritrae uno di questi traslochi nell'ultimo quarto del Cinquecento.
Nel calendario rurale l'11 novembre, ricorrenza di San Martino, faceva da spartiacque tra un'annata agraria, dopo la semina, e la successiva. Quando i contratti di mezzadria o affittanza venivano sciolti, segnava il termine ultimo per lasciare il fondo e il casolare. La disdetta, ricevuta solitamente a maggio, in anticipo di un semestre sulla scadenza, costringeva il capofamiglia all'ansiosa ricerca di un nuovo contratto e una nuova sistemazione nello stesso comune o, al più, tra paesi vicini - se questa riusciva - senza sicurezza di conservare o migliorare le condizioni lavorative e abitative che abbandonava.
Finiti i lavori dei campi, diviso e venduto il raccolto, passati i primi giorni freddissimi di Ognissanti e dei morti, non era infrequente una mitigazione della stagione grazie alla piccola "estate di San Martino", così detta dalla leggenda di Martino futuro vescovo di Tours(1), che vedendo un povero infreddolito – Gesù stesso, secondo alcune narrazioni – aveva diviso in due il mantello, mentre la temperatura dell’ambiente si alzava per evitargli il freddo, come gratitudine per il buon gesto. I contratti agrari tenevano conto del fatto che, attorno all’11 novembre, la temperatura si alzava di qualche grado e rendeva i trasferimenti più facili.
Si materializzavano allora per le vie i mesti cortei di chi "faceva San Martino": il tiro di cavalli o di asini, il carro sovraccarico e debordante di mobili, di masserizie, di attrezzi, della cassapanca col vestiario, della legna per l’inverno, di polli nella stia e di conigli nella gabbia, di bambini issati sopra a tutte le suppellettili alla meglio, gli adulti incamminati a piedi dietro le cose trasportate ...
La leggenda di Martino
Il cavaliere Martino, distante ancora poco meno di quattro giorni di viaggio dalla sua casa alla quale stava tornando, aveva incontrato lungo la strada innevata un povero vecchio infreddolito senza neppure un cencio che gli coprisse le spalle e, impietosito, aveva diviso in due il proprio mantello donandogliene metà. Quel vecchio ignudo secondo alcune narrazioni era Gesù stesso, quello che dirà ai misericordiosi: «Ero ignudo e voi mi avete vestito». Nell'atto stesso che il soldato porgeva al povero la metà del suo mantello, tutta la neve che era in terra disparve, la terra si rasciugò, l'aria si fece calda, le piante sparsero la foglia, gli uccelli si misero a cantare: insomma una vera estate in pieno novembre. Durò così fino a sera, finché raggiunto l'albergo per pernottarvi ricominciò a nevicare.La mattina il mondo era nuovamente imbiancato.
Martino sperimentò il "miracolo" quanto durò quel viaggio fino a casa, perché ognuno dei giorni successivi gli si sarebbe ripresentato un povero viandante bisognoso di vestiario nella morsa del freddo: al secondo donò l'altra metà del mantello; per il terzo, non avendo più mantello, si privò della sottoveste; al braccio nudo tremolante dell'ultimo incontrato offerse infine la camicia, l'ultimo avanzo dei suoi vestiti. Ogni volta si dissolveva la neve e scompariva il gelo, l'inverno cedeva improvvisamente all'estate.
Martino, incredulo di ciò che capitava dopo ogni suo atto di misercordia, dubitava di sognare. Giunto finalmente a casa, Cristo gli apparve nottetempo: era ricoperto della metà del suo mantello militare e diceva agli angeli e ai santi che gli erano d'intorno: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro.
È il traffico colorito e nello stesso tempo dolente di un trasferimento di contadini il giorno di San Martino. Il soggetto è raro e non trova precedenti in altre composizioni cinquecentesche né italiane né straniere. Efficaci sono anche le soluzioni compositive.
Una famiglia, alla destra di chi osserva la scena, ha ormai radunato all’esterno della cascina in cui ha vissuto la passata annata agraria tutti gli oggetti e gli animali ed è probabilmente pronta alla partenza. In fondo alla strada un altro nucleo famigliare sta arrivando a destinazione e imbocca il portale di un edificio rurale.
Nella cosiddetta "estate di San Martino" le giornate sono tornate miti e sembrano una rinnovata primavera. Per rendere questa sensazione la donna ha braccia nude e le colombe tornano in amore. I colori sono ben contrastati, ancora fuori dal livellamento delle brume autunnali. In questo bizzarro giorno novembrino ancora caldo o tiepido il pittore fa contrastare «con il fondo scuro, quasi temporalesco, la luce del sole concentrata solo in un punto, quello in cui i contadini accumulano le poche cose, per poi partire».
Treviso | 30 novembre 2019 - 31 maggio 2020 | Museo di Santa Caterina
Un percorso tematico e cronologico tra la collezione di "still leffen – still leben" e "still life" ("nature morte", detto nelle meno felici denominazioni francese e italiana) del Kunsthistorisches Museum di Vienna, una categoria di opere d’arte che ha come soggetto scene di mercato e di cucina, mazzi di fiori, frutta, strumenti musicali, accessori per la caccia, ossia pitture che ritraggono oggetti immobili al naturale. Il termine nordeuropeo mette in rilievo la dimensione contemplativa di queste rappresentazioni che invitano lo spettatore alla meditazione sulla caducità delle cose umane.
Il genere si è sviluppato tra la fine del Cinquecento e lungo tutto il XVII secolo a livello europeo. Sono esposti Francesco Bassano, Lodovico Pozzoserrato, Frederik van Valckenborch, Jan Baptist Saive, Jan Brueghel, Pieter Claesz, Willem Claesz Heda, Jan Weenix, Gerard Dou, Evaristo Baschenis, Gasparo Lopez dei Fiori, Elisabetta Marchioni ...
Completa la mostra una sezione dedicata alla fotografia contemporanea - con opere di David La Chapelle, Martin Parr, Robert Mapplethorpe, Nobuyoshi Araki, Franco Vimercati, Hans Op De Beeck - che testimonia come il tema della natura morta sia presente negli scatti di alcuni degli artisti più importanti e celebrati a livello internazionale.
Nella Sala degli Affreschi di Palazzo Piloni a Belluno, usata comunemente dall’amministrazione provinciale per riunioni e convegni, i dipinti che affrescano le pareti, scoperti nel 1901 durante i lavori di restauro del palazzo ma risalenti al ‘500, sono di mano di Cesare Vecellio (1521-1601), cugino di Tiziano. Vi sono rappresentate “Le quattro stagioni”, ma in esse - dato originale rispetto alle molte varianti esistenti sul tema - particolare attenzione è data alle vesti delle persone ritratte.
Sala degli affreschi - Palazzo Piloni Belluno | Fonte: corrierealpi.gelocal.it
Scopriamo le semplici vesti dei contadini impegnati nel lavoro nei campi d’estate e nella raccolta dei frutti in autunno, gli abiti drappeggiati delle fanciulle protagoniste della primavera e i più pesanti vestimenti signorili nella scena invernale - unica ritratta in un interno - durante un banchetto, allietato da una musicante, in cui da una tavola riccamente imbandita i commensali si servono con le mani.
In quest'ultima inquadratura, da una finestra (o rimandati da uno specchio) s'intravedono simboli della città di Belluno come il Palazzo dei Rettori e il Duomo, e, fra altri personaggi, un anziano signore con la barba bianca, secondo alcune interpretazioni il conte Odorico Piloni stesso, committente dell'affresco al conterraneo Cesare Vecellio, poi continuato dal figlio Giorgio Piloni.
![]() ![]() ![]() ![]() Fonte: corrierealpi.gelocal.it |
Non c’è da stupirsi per questi abiti così dettagliati, poiché proprio Cesare Vecellio si era dedicato ad un'opera, frutto di una approfondita ricerca durata molti anni, sugli “Habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo” [← it.wikipedia.org], una storia del costume che gli varrà molti riconoscimenti dai posteri. Il pittore cadorino realizza i disegni degli abiti, commentandoli con una descrizione che non si ferma al solo vestiario, ma diviene una riflessione sulla società e sulla vita economica, religiosa e politica. Nel 1593 stampò anche una corposa serie di schemi per ricami e merletti, Corona delle nobili et virtuose donne, raccolta in quattro volumi.
Cesare Vecellio, Ritratto di famiglia; Venezia, Museo Correr | Fonte: it.wikipedia.org/wiki/Cesare-Vecellio
Cesare Vecellio, nato in Cadore intorno al 1521 da una famiglia illustre di mercanti, secondo cugino del famoso Tiziano, è stato un artista eclettico, pittore, disegnatore, incisore, miniaturista, dedito anche alla ricerca dei costumi e all'attività di stampatore.
Si sa pochissimo della sua formazione; forse cominciò l'apprendistato artistico nella bottega di Francesco Vecellio, fratello di Tiziano, poi ha continuato a Venezia, presso Tiziano stesso. La sua prima attività non è distinguibile all'interno della bottega del grande maestro; sicuramente vi ha perfezionato la sua tecnica grafica e pittorica.
Agli anni cinquanta risalgono le prime opere pittoriche che testimoniano in quegli anni un’attività indipendente, i ritratti della famiglia di Odorico Piloni, amico e grande mecenate di Cesare. Nello stesso periodo Cesare inizia un'opera che lo impegnerà per più di trent'anni, gli scomparti del polittico della chiesa arcipretale di Lentiai, ideato probabilmente da Tiziano.
Tra le numerose opere realizzate da Cesare negli anni seguenti, sono da ricordare le portelle d'organo per la chiesa arcidiaconale di Pieve di Cadore, oggi visibili dietro l'altar maggiore, e la originale impresa della decorazione dei tagli dei libri della biblioteca (172 volumi) di Odorico Piloni; per la stessa famiglia Piloni l'artista realizzò l'affresco con le quattro stagioni per il loro palazzo bellunese e gli affreschi nella villa di Casteldardo presso Trichiana, oggi perduti. Nel frattempo si dedicò alla decorazione della chiesa di Lentiai, che era in fase di ristrutturazione, con affreschi, tre pale d'altare e i dipinti per il soffitto.
All'ottavo decennio del cinquecento è attestata un'attività tipografica, con la pubblicazione di xilografie e piccoli opuscoli, mentre continuano le commissioni a Venezia e nel bellunese, come la pala dei Santi Fabiano e Sebastiano nel Duomo di Belluno e l'Ultima Cena per la famiglia Genova nella chiesa arcidiaconale di Pieve di Cadore.
Le ultime opere rilevanti dell'artista sono la pala per la chiesa di Tarzo, presso Treviso, e i due dipinti donati alla Magnifica Comunità di Cadore, di cui si conserva la Dedizione del Cadore a Venezia. Cesare Vecellio muore a Venezia il 20 marzo 1601 "da febre zorni 10".
[Tratto da Cesare Vecellio, un artista al servizio del gusto - Libri, dipinti, costumi - Guida alla mostra di Pieve di Cadore (BL), a cura di Alessandra Cusinato, Edizioni Provincia di Belluno, Belluno, 2001]
Il Rinascimento di Pordenone, Con Giorgione, Tiziano, Lotto, Jacopo Bassano e Tintoretto
Mostra a cura di Caterina Furlan e Vittorio Sgarbi
Da venerdì 25 ottobre 2019 a domenica 2 febbraio 2020
Pordenone | Galleria d'Arte Moderna, Museo Civico d'Arte e Duomo di San Marco
Alla Galleria d'Arte Moderna sono esposti più di 50 dipinti e una ventina di disegni autografi del Maestro. Accanto a queste opere, dipinti di esponenti di spicco della pittura veneta e padana del XVI secolo: da Giorgione, Tiziano, Sebastiano del Piombo, Lotto, Romanino a Correggio a Dosso Dossi, Savoldo, Moretto, Schiavone, Bassano, Tintoretto, Amalteo e altri ancora, senza dimenticare i suoi precursori e i suoi allievi o seguaci.
Al Museo civico d’Arte è possibile scoprire altri dipinti e opere del Pordenone visitando il percorso permanente del secondo piano. Al piano terra invece, è allestita la sezione documentaria relativa all’artista e una selezione di volumi d’arte.
Le opere di questa mostra provengono da importanti musei italiani e internazionali, oltre che dai musei e chiese del territorio friulano, veneto e lombardo.
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