[a. m.] L'ultimo giorno di novembre del 2020, si è spento Arturo Benvenuti, a 97 anni. Oderzo ha perso - con lui - una delle personalità più familiari, caratteristiche e longeve della recente storia culturale cittadina. Una figura che ha quasi raggiunto il secolo di vita, attraversandone due, così carichi di trasformazioni storiche, morali, culturali.
Poeta e pittore, è stato ragioniere e bancario coscienzioso - nella sua professione - ma anche intellettuale di grande impegno etico e vulcanico animatore culturale, sensibile critico d’arte anche verso altri artisti di ascendenza opitergina e generoso organizzatore di mostre, convegni ed eventi per valorizzarne l’opera.
Sul piano istituzionale il suo contributo più importante e duraturo rimane senza dubbio quello della fondazione e della prima direzione della Pinacoteca Civica Alberto Martini, simbolicamente avviata dal primo prezioso ed emblematico dipinto del pittore simbolista (l’Autoritratto del 1911) che Maria Petringa, la vedova, donò alla Città, a conclusione della mostra antologica dell'artista nato ad Oderzo, che Benvenuti - con il patrocinio del Comune - aveva proposto e curato nel 1967. Nel giro di pochi anni, alla prima vennero ad aggiungersi altre 80 opere martiniane e nel 1970 fu già possibile per l’amministrazione comunale (retta dai sindaci Piero Feltrin e Giorgio Gherlenda) istituire ufficialmente la Pinacoteca intitolata ad Alberto Martini, allestita all'inizio nella sede municipale di Ca' Diedo, successivamente insediata nel 1974 al piano nobile dell'attuale palazzo della Biblioteca Comunale di via Garibaldi e trasferita definitivamente all'ultimo piano del restaurato Palazzo Foscolo nel 1994.
Sotto il mandato di Arturo Benvenuti, durato fino al 1984, la credibilità dell'istituzione fu così alta che altri lasciti ragguardevoli (ancora della vedova Petringa, poi di Anderloni e Tischer, eredi Martini) incrementarono la collezione (oggi ricca di 700 opere). Sull’artista vennero intanto curate pubblicazioni (da Arturo Benvenuti, Giuseppe Marchiori, Paolo Bellini, Marco Lorandi), si arricchì la bibliografia martiniana e furono organizzate varie mostre monografiche.
La poesia
Le radici della poesia e della pittura di Arturo Benvenuti che abbiamo potuto leggere e vedere in tutti questi decenni fino all'ultimo della sua vita sono gettate negli anni Sessanta. Primi sono i versi o i segni pittorici? Le esperienze si alimentano l'una con l'altra e i loro frutti sono maturi sul finire del decennio e corrono per gli anni Settanta. I versi hanno generato anche le immagini e le immagini anche i versi, vivendo simbioticamente fin dal primo libretto edito, i 25+15 bozzetti giuliani del 1969. Si aggiungono poi ritmicamente Masiere nel 1970, Adriatiche rive nel 1973, A meno che nel 1977, Još («ancóra» in croato) nel 1978, Non ve ne andate gabbiani (il mio Carso) 1969-1970 nel 1979, di nuovo popolato quest'ultimo da trenta poesie e trenta dipinti, e KZ (sigla di Konzentration Zenter) - Poesie (2010), risalenti al 1980 e già raccolte in "autoedizione xerografica per gli amici" nel 1983.
I testi di KZ erano stati composti «durante uno dei "pellegrinaggi" lungo i tanti percorsi della sofferenza umana» che Benvenuti aveva intrapreso visitando i «tristi e terrificanti luoghi» che furono i lager, Oświęcim (Auschwitz, in tedesco) - Birkenau in Polonia, Terezín in repubblica Ceca, Mauthausen in Alta Austria, Buchenwald in Turingia (Germania orientale) non lontano da Weimar, mosso da esigenze interiori, «non ultimo il desiderio di raccogliere e mettere insieme [...] quelle particolari "testimonianze" che per noi, con i mezzi dell'arte, le vittime dei campi di concentramento e di sterminio nazisti hanno attuato». Con i disegni eseguiti dagli internati raccolti dal 1979 al 1983, ne era scaturito il libro KZ. Disegni dai campi di concentramento nazifascisti. Arte come testimonianza (con una prefazione di Primo Levi), meritoriamente ripubblicato nel 2010. Può sembrare un'opera che - dismettendo la propria ricerca poetica e umana, talvolta iperlirica e soggettiva, talaltra desolata e nichilistica - ha ceduto la voce e la penna a chi ha vissuto l'inferno concentrazionario del Novecento, il più orrido degli stermini, perché a costoro unicamente è ancora lecito usare i mezzi dell'arte, non più ad altri, neppure a chi ha vissuto altre, ma minori, violenze della storia o la perdita per quanto lacerante di pienezza della vita e dell'identità.
Per la poesia di Arturo Benvenuti i più recenti e completi contributi di analisi e di interpretazione sono i saggi di Giampietro Fattorello: Benvenuti, la cenere della vita e la poesia, ad introduzione della raccolta di tutta l’opera poetica (Becco Giallo Editore, Padova, 2014, pp. XVII-LXXV), e Lussino e il gabbiano: la poesia della persuasione in Arturo Benvenuti, nella monografia Arturo Benvenuti uomo, scrittore, artista (Fondazione Oderzo Cultura, 2012, pp. 33-67) dedicata soprattutto a documentarne criticamente la pittura, a cura di Roberto Costella.
La pittura
Ci si potrebbe chiedere se, in Benvenuti, primi siano i versi o i segni pittorici. Appaiono comunque geminati con la medesima sostanza ed intenzione, difficili se non impossibili da separare l'uno dall'altro come dei gemelli siamesi, cifrati gli uni dal linguaggio della scrittura, gli altri dal linguaggio delle forme e dei colori, ma coimplicantisi. Il sostrato dei significati (e talora di assenza dei significati raggiunta dall'impotente perlustrazione del soggetto) è lo stesso per entrambi.
«Poeta e pittore carsico» è espressione con cui spesso si è autorappresentato Arturo Benvenuti stesso o usata da chi ne ha affrontato criticamente l'opera (la "carsicità" essendo «un'esperienza», un attraversamento del mondo e della natura, spazio memoriale ed esistenziale spiritualizzato, come quella permessagli dall'isola di Lussino coi suoi micro/cosmi carsici, non solo la caratteristica fisica, esteriore, paesaggistica di un luogo). Lo ribadiscono i titoli di mostre personali della sua produzione pittorica: Espressioni carsiche (Maniago, 1971; Galleria Teatro Minimo, Mantova, 1972; Galleria La Chiocciola, Padova, 1974), Piccola antologia carsica (Biblioteca Comunale, Oderzo, 1978), Arturo Benvenuti. Carsiche. Paesaggio? Scrittura? Pittura? (Palazzo Porcia, Oderzo, 1992), Arturo Benvenuti. Carsiche. L'isola (Palazzo Moro, Oderzo, 2009), L'isola e micro/cosmi carsici (Museo del Paesaggio, Torre di Mosto, 2011).
La monografia curata da Roberto Costella, Arturo Benvenuti uomo, scrittore, artista, costituisce ad oggi il repertorio più significativo a cui riferirsi, per saggiare la forza e l'espressività del discorso iconologico del poeta-pittore (o pittore-poeta) Benvenuti. Roberto Costella, prima della monografia del 2012, gli aveva dedicato i saggi Arturo Benvenuti intellettuale veneto, poeta e pittore carsico («QDB. Quaderni della Biblioteca civica», Pordenone, 2010, n. 10) e Arturo Benvenuti, percorsi verso la pittura (Catalogo della mostra, L'isola e micro/cosmi carsici, Cicero, Venezia, 2011, pp. 13-21).
Sulla sua pittura (o «pagina dipinta», invece che «pagina scritta») astratto-geometrica, labirintica, sintesi tramutata di forma e materia, combinazione di «segni geometromorfici e organomorfici, cioè strutture pure, regolari e iterate, insieme a strutture singolari, variegate ed esclusive» (Roberto Costella), avevano scritto, presentando le varie esposizioni, Giuseppe Marchiori, Renzo Margonari, Silvana Weller Romanin Jacur, Roberto Durighetto, Giovanni Pizzuto, Tullio Vietri, Giorgio Baldo, ognuno apportando un tassello di individuazione.
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È di pietre e vento, di luoghi montuosi e isole, di mare e gabbiani l’universo istro-dalmata e, soprattutto, quarnerino e lussignano, a cui Arturo Benvenuti guardava come a una madre. Mi piace pensare che, prima che il suo cuore si spegnesse serenamente nel sonno nelle prime ore di lunedì 30 novembre 2020, Arturo si sia addormentato con l’immagine negli occhi di questo suo mondo dal quale proveniva l’amatissima moglie originaria dell’isola di Lussino, Maria «Marucci» Poglianich», per il pittore e poeta opitergino chiave d’accesso e simbolo di quel mondo e fondamentale «occasione» di ricongiungimento con la realtà storica e umana di origine della famiglia paterna.
Legato all’ambiente carsico che si estende dal monte Maggiore alle Bocche di Cattaro, Benvenuti vi ha trovato la linfa della sua vita e della sua arte pittorica e poetica, senza tuttavia cedere a tentazioni di pura evasività, cosa peraltro fin troppo facile di fronte alla seducente bellezza di quel paesaggio tanto scabro quanto attrattivo. Per questo, egli è diventato il cantore del Carso e delle sue adriatiche rive con l’ardore e l’entusiasmo di chi non conosce confini all’innamoramento per l’oggetto del proprio amore, al punto che così si esprime in Terra di Cherso e Lussino: «Senza misura ho amato / questo forte mondo / che sulle ruote non fugge / di fragili piaceri, / gli stregati giorni / nascenti con le brezze / dell’alba nell’adriatica / luce immersi / a serbare il senso / dell’essere tenaci» (vv. 28-47).
E, tuttavia, non si consideri l’atteggiamento esistenziale di Benvenuti per il suo mondo una chiusura in un luogo autosufficiente e protettivo come nel più classico quadretto idilliaco. Benvenuti conosceva a fondo la storia dell’Istria, della Dalmazia e della ex Jugoslavia, il loro intreccio di culture, romana, veneziana, slava e tedesca; anche grazie a all’esule Marucci, sapeva delle violenze storiche che vi erano state perpetrate. In quest’ottica, la tenacia a cui Benvenuti si richiama in questi suoi versi indica una volontà di resistenza morale verso tutto ciò che minaccia i valori di bellezza e umanità incarnati e sublimati nell’arcipelago di Cherso e Lussino. L’idealizzazione della terra carsica e quarnerina si accompagna pertanto a una vigile coscienza conscia delle strade, anche insanguinate, della storia. D’altro canto, Benvenuti scorgeva, nel suo stesso mondo, i segni di un cambiamento nefasto dettato da una contemporaneità consumistica, ormai indifferente a chi come Arturo guarda alla masiera, il muro a secco tipico del Carso, come a un simbolo di fede: «Guardo alla masiera / come a una fede», proclama infatti in Masiera (vv. 25-26).
Arturo Benvenuti uomo e intellettuale è sempre stato dentro la storia europea del Novecento e la sua tenacia si è tradotta in un impegno civile e culturale che ha sconfinato dal campo pittorico e poetico, per manifestarsi nella critica d’arte, nell’indagine antropologica e nella ricerca storica sull’Opitergino, la venezianità storica e la cultura istro-dalmata fotograficamente documentate, senza tacere l’azione a favore dell’ambiente e la promozione di mostre pittoriche e fotografiche. Amico del pittore Armando Buso e discepolo del critico d’arte Giuseppe Marchiori, Benvenuti è stato inoltre il fautore della riscoperta dell’opitergino Alberto Martini, cosa che in virtù della sua determinazione ha portato, nel 1970, all’istituzione della Pinacoteca opitergina dedicata al grafico e pittore precursore del surrealismo.
Impastato di storia, Benvenuti ne ha colto i contrasti e le lacerazioni fin dai tempi del secondo conflitto mondiale; allora ventenne si rese conto che le dita sporgenti dalle fessure dei carri piombati fermi alla stazione ferroviaria di Treviso erano di persone deportate verso una destinazione tragica e infernale, i lager dello sterminio nazifascista. Così, mosso dal rimorso di non aver potuto niente contro l’annullamento dell’umano consumato nell’universo concentrazionario hitleriano, il Benvenuti ormai adulto sentì l’obbligo morale di percorrere, con Marucci, le vie d’Europa, per rintracciare e raccogliere i disegni degli internati nei lager e offrire un risarcimento memoriale alle vittime della Shoah. Il lavoro terminò nel 1981 e venne pubblicato nel 1983 con il titolo K.Z. Disegni dai campi di concentramento nazifascisti. Arte come testimonianza, un libro dall’altissimo valore umano se Primo Levi ne firmò la Prefazione, «contravvenendo a una regola che mi sono imposta» (così Levi in una lettera a Benvenuti datata Torino, 16 ottobre 1981).
Arturo è stato artista e intellettuale poliedrico, autentica figura di genio, personalità ironica e rigorosa, talvolta «petrosa» come le pietre del Carso di Scipio Slataper e dello stesso Arturo, suo «discepolo ardente» (A Scipio Slataper, v. 1). La sua opera poetica è stata per me oggetto di studio. I nostri incontri erano una reciproca seduta psicoanalitica. Essergli stato amico e averlo avuto come maestro è un mio privilegio (tratto da Giampietro Fattorello, Arturo Benvenuti. Dentro la storia europea del '900, «IL DIALOGO», n. 1, Gennaio 2021, p. 11 | parrocchiaoderzo.it/dialogo-genn21-web)
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Giampietro Fattorello ha scritto appositamente per il sito locusglobus.it (e lo ringrazio di cuore) un altro contributo per la conoscenza ancora più ravvicinata di Arturo Benvenuti, di cui ha studiato l'opera opetica.
Si tratta di La verità vissuta di Arturo Benvenuti, che potete leggere a questo LINK o in formato PDF
Arturo Benvenuti: approdi poetici - 1/2
Arturo Benvenuti: approdi poetici - 2/2
Arturo Benvenuti racconta "K.Z. Disegni degli internati nei campi di concentramento nazifascisti"
Arturo Benvenuti, pittore e poeta di Oderzo, oggi novantenne, ha voluto fare memoria in maniera davvero toccante. Per anni ha girato l’Europa cercando i disegni realizzati da grandi e piccoli nei campi di concentramento.
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«Il mio genere di studio: la consapevolezza che l’esperienza stia nel ripensare la coscienza, una teoria scientifica dell’esperienza soggettiva». Sono parole che Arturo Benvenuti mi dettò al telefono nel corso di una delle nostre ultime conversazioni. Era il 29 giugno 2020. Per me un bel regalo di compleanno, tanto più gradito quanto più spontaneo e sorgivo da parte sua e imprevisto e inaspettato da parte mia. Sono le parole di un «vegliardo» che custodiscono e mostrano l’impegno – quasi un destino – in cui Arturo si era riconosciuto e a cui ancora si affidava.
Le leggo, queste parole, come un lascito spirituale e come la sintetica testimonianza della personalità esistenziale, intellettuale e artistica dell’uomo che da quasi dieci anni conoscevo e frequentavo come amico e studioso della sua opera poetica[1].
Sono parole che esprimono un impegno mai venuto meno, da quando Benvenuti negli anni Sessanta del secolo scorso comprese quale sarebbe stata la sua strada di intellettuale e artista. Sono, anche, parole che concentrano una concezione filosofica e una morale. Vi vedo l’affermazione di una coerenza di fondo tra l’elaborazione del pensiero e la sua traduzione empirica e, al tempo stesso, la necessità di un dialogo costante tra il pensiero e l’esperienza e implicante che il pensiero, fattosi esperienza, sia a sua volta stimolato e interrogato dall’esperienza in un continuo e reciproco «rimbalzo». Lo ritengo un frammento di un programma filosofico in cui non esito a riconoscermi a pieno.
Arturo aveva lo sguardo acuto ed era capace di scorgere negli oggetti e negli elementi naturali immagini e figure virtuali, illusorie certo ma con una loro forma: era cioè interessato dal processo psichico della pareidolìa. Era poi curioso di tutto ciò che lo potesse culturalmente pungolare e negli ultimi anni di vita era affascinato dal problema psicologico e filosofico della percezione e, dunque, della variabilità dei punti di vista da cui si guarda e si è guardati. I libri che leggeva in proposito erano la manifestazione del senso di una ricerca oramai acquisita e consolidata nel metodo. Quale della sua ricerca sia stato l’esito, sempre soggetto alla vicendevole verifica ingaggiata dal pensiero e dall’esperienza, non è certo facile dire, se come per tutti anche per Arturo la risposta va scavata nella coscienza e nella psiche, se si tratta, in altre parole, di una risposta circoscritta alla vita interiore. Una risposta la cui natura consiste nell’essere ri-posta e, dunque, ri-proposta. Ma se la risposta si ripropone autenticamente è perché il suo contenuto e la sua richiesta di verità non hanno ancora conseguito una loro stabilizzazione; eguale discorso si può fare per la domanda che di quella risposta è la sorgente.
Ma quale allora la risposta di Arturo? Credo di poterla leggere in una sua poesia, Masiera: «Per una distesa / di masiere e di screpolate / doline il senso invano / ho cercato di questo / mondo smarrito. M’ha / sorretto la mano che / m’offrivi col sorriso / della verità vissuta»[2].
Immaginiamo la scena.
L’ambiente è quello petroso e aspro delle doline del Carso, non saprei dire in quale località, ma facciamo che sia il paesaggio di Lussino, l’isola quarnerina di cui era originaria Maria «Marucci» Poglianich, l’amata di una vita intera. In questo luogo fondante per l’io poetico e, dunque, per lo stesso Arturo, il poeta ha cercato invano il senso di «questo / mondo smarrito», l’umanità come tale. L’io ha attraversato una distesa di masiere, i classici muretti a secco carsici, particolare rilevantissimo, se la masiera ha per Arturo un valore simbolico fondamentale e non surrogabile e se egli pone termine al componimento con questa icastica dichiarazione o professione di fede: «Guardo alla masiera / come a una fede»[3]. Eppure, pare che la fede nella masiera e il totale coinvolgimento nei suoi contenuti siano impari a sostenere la consapevolezza dell’esistenza de «la feccia / del male umano»[4]. Che cosa può allora essere di lenimento? La mano che l’amata offre «col sorriso / della verità vissuta».
Queste due parole – verità vissuta – poeticamente accostate sono state e sono per me un insegnamento. Alla domanda che cos’è la verità a cui la filosofia non può che dare una «ri-posta» Arturo dà questa sua risposta poetica, certo parziale e non definitiva ma significativa e probante. Così, egli ci fa capire che, se la verità ha un senso, questo è ri-posto nel movimento della stessa esistenza: la verità acquista valore per come ho vissuto, vivo e vivrò la mia vita, è il frutto che conserva sempre una parte di acerbità di un percorso caratterizzato più dal contrasto e dalla perdita che non dalla vittoria e dall’acquisto. È una verità vissuta, più patita che agita, quella che ci appartiene malgrado i nostri infingimenti e alibi e le nostre denegazioni e rimozioni. È una verità limitata a ciò che abbiamo vissuto e che tuttavia va messa in relazione anche con le possibilità che non abbiamo esperito. Verità vissuta, non verità assoluta.
Il concetto di verità vissuta comporta pertanto che una parte della verità resti esclusa dalla nostra possibilità di dirla tutta: per i mortali la verità è una questione di parzialità.
Penso che questo sia il significato sotteso a queste due parole dell’amico Arturo e che possano essere accostate a quanto afferma Jacques Lacan: «Je dis toujours la vérité: pas toute parce que toute la dire on n’y arrive pas. La dire toute, c’est impossible matériellement: les mots y manquent. C’est même par cet impossible que la vérité tient au réel»[5] («Io dico sempre la verità: non tutta, perché a dirla tutta non ci si riesce. Dirla tutta è materialmente impossibile: mancano le parole. È proprio per questo impossibile che la verità attiene al reale»[6]).
Ignoro se Arturo conoscesse questo pensiero dello psicoanalista francese, eppure la sintonia mi pare consistente. Se il «vegliardo» Arturo afferma che l’esperienza caratterizzante della (sua) psiche e della (sua) soggettività è nel ripensare con metodico rigore la coscienza, è perché egli è perfettamente consapevole del carattere processuale e metamorfico della verità della vita in quanto si concreta come verità vissuta.
D’altro canto, Arturo un po’ psicoanalista lo era, benché meno nelle vesti del terapeuta che in quelle del paziente (o analizzante, direbbe Lacan). Lo era di se stesso: mentre si faceva ascoltare, decantava il proprio vissuto, cercava di chiarirsi a sé stesso in un continuo esercizio di autoripensamento. Per me frequentarlo è significato partecipare a una serie di sedute psicoanalitiche. Fluviale nei suoi discorsi, Arturo si offriva all’ascolto dell’interlocutore, certo anche con qualche invasività ed eccesso divagante, e intanto manifestava pensieri ed esperienze. Ogni volta, era una sorta di verifica e di messa a punto della sua vita e della sua verità vissuta. Era un modo per mettere in atto la sua teoria scientifica dell’esperienza soggettiva.
Un giorno del 2011, il 25 febbraio, al telefono Arturo più volte mi ripeté l’espressione «Sempre questo io», per dire quanto ingombrante, ossessiva e narcisistica possa essere la mente umana. Benché non parlasse esplicitamente di sé stesso, Arturo non si chiamava affatto fuori. Ne trassi un componimento poetico, inserendovi in chiusura alcune sue testuali parole pronunciate durante quel colloquio, a dimostrazione della sua consapevolezza dei pericoli insiti nell’ipertrofia dell’io (anche il suo): «perché non voler provare / a tenerlo quanto più possibile, da soli, / al guinzaglio?»[7].
10 Gennaio 2021 | Leggi pdf
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