Oderzo e Venezia Bizantina | Incontro con l’autore Lo storico veneziano Nicola Bergamo, nel raccontare Venezia dalle origini fino all'indipendenza da Costantinopoli, incrocia anche la storia di Oderzo, all'epoca ancora centro amministrativo di qualche rilievo (sebbene ormai lontana dai fasti dei secoli precedenti) di un territorio sotto il controllo dell’Impero Romano d’Oriente che si sarebbe in seguito evoluto in ducato e quindi nella Repubblica di Venezia: la Oderzo di san Tiziano, san Magno e di Paolo Lucio Anafesto, eletto - secondo leggenda - primo “doge” veneziano. Anche prescindendo dalla storicità del "primo doge", la sua figura costituirebbe indizio che la nobiltà opitergina, trasferitasi nella più sicura Eraclea per sfuggire alle incursioni longobarde, ebbe un ruolo decisivo nella nascita di quell'umile comunità di profughi nella zona di Torcello destinata a diventare lentamente la "Dominante". |
Fonte della foto: leggerepernondimenticare.it
4.12.2019 | È morto Giuseppe Bevilacqua, noto germanista, storico della letteratura tedesca, traduttore e scrittore.
[a. m.] Trevigiano di nascita (1926), aveva trascorso la giovinezza ad Oderzo, abitando coi genitori a Palazzo Foscolo. La madre era la pittrice Angelita Rolleri. Nasceva negli anni in cui lo zio Luigi de Giudici, pittore dell'avanguardia anti-accademica degli anni Dieci, marito di Maria Rolleri, sorella di Angelita, ricopriva la carica di "sindaco-podestà" di Oderzo.
Formatosi all'Università di Padova, fu dapprima lettore all'Università di Tubinga e poi assistente di Ladislao Mittner a Ca' Foscari. Dal 1967 al 2000 ha tenuto la cattedra di lingua e letteratura tedesca all'Università di Firenze.
Un ampio scorcio sulla sua vita di passioni, interessi e impegni culturali nonché di affetti e di amicizie, ha lasciato nelle intense memorie di Pagine di un lungo diario (Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 2015).
La sua attività saggistica è fra le più importanti dell'ultimo cinquantennio.
È stato il più profondo studioso di Paul Celan. Dopo aver vinto il premio Mondello 1984 già per la traduzione di "Luce coatta e altre poesie postume", ha tradotto e curato le Poesie di Celan raccolte nel Meridiano Mondadori del 1998, seguito nel 2001 dalle Letture celaniane (Editrice Le Lettere).
Sul Romanticismo tedesco, suo permanente oggetto di studio, si sono succeduti: Parole e musica: l'esperienza wagneriana nella cultura fra Romanticismo e Decadentismo (Olschki, 1986); Romantici tedeschi (Rizzoli 1995-98, 5 volumi); Saggio sulle origini del Romanticismo tedesco (Sansoni, 2000); Introduzione al secondo "Faust" e altri interessi goethiani (Palomar, 2003), fino al saggio sul legame tra poesia e follia in Friedrich Hölderlin (Olschki, 2007). Claudio Magris considera quella dell'amico Bevilacqua «la più originale e persuasiva indagine esistente sull'argomento, che aiuta a capire a fondo pure la stagione culturale che stiamo ancora vivendo, il moderno e il suo trapasso nel post-moderno»
I percorsi dentro il Novecento si trovano raccolti in Novecento tedesco (Le Lettere, 2004) e comprendono anche la traduzione in rima delle Poesie di Gottfried Benn (Il ponte del sale, Rovigo, 2008).
Negli ultimi decenni, Bevilacqua aveva lasciato erompere anche la propria vena narrativa e poetica. Godibilissimi sono sia il breve "romanzo di iniziazione" Villa Gradenigo (Einaudi, 2011), vincitore del Premio Comisso, sia l'appena più ampio L'alzata di Meissen (Mondadori, 2014), protagonista un "Io senile", di chiara ispirazione autobiografica.
Il primo racconta il mondo e i segreti di un adolescente inquieto e solitario, nel microcosmo di una villa del Seicento e il suo vasto parco, Villa Gradenigo (alias Palazzo Foscolo), nell’abitato del paese di Borgo (alias Oderzo). Sullo sfondo dell’Italia fascista, nel cuore della provincia veneta, Maurizio sperimenterà le presenze e le assenze dell’universo famigliare, si emanciperà gradualmente dal ruolo di figlio e fratello, conoscendo i primi turbamenti, vedrà dispiegata l’immobile gerarchia sociale degli abitanti del Borgo, fino ad incontrare la politica e la letteratura, destinati a ridisegnare il suo tragitto interiore in vista dell’età adulta.
Il secondo prende nome dalla stupenda alzata in porcellana di Meissen finemente modellata, che il professor Linder, ospite come relatore ad un congresso culturale di tre giorni a Villa Bella, sul lago di Como, ammira nello studio-biblioteca riccamente dotato del Direttore della Fondazione, che l’ha invitato. La villa appare, soprattutto a sera e notte, un mondo diverso, ovattato, presago di accadimenti fuori dell’ordinario. Dell’alzata di Meissen lo attrae particolarmente l’espressività delle due figure umane rappresentate, sui lati opposti attorno al fusto a forma di tronco d’albero: una giovane dama slanciata nella corsa che tiene con una mano l’abito rialzato fino quasi alle ginocchia e con l’altra un cestino colmo di frutta dinanzi a sè, mezzo voltata tuttavia come per accertarsi d’esser seguita; un cavaliere in abito settecentesco al suo inseguimento con la mano protesa ad afferrarla. Poco dopo l'inizio del congresso, tra gli ospiti, Linder fa la conoscenza di Peonia, una giovane studiosa tedesca, lì mandata dal suo professore, per tenere la prima relazione della sua carriera. Peonia ha quasi la metà dei suoi anni. Si dispiegheranno, indovinabili ed inaspettate al tempo stesso per i protagonisti, le dinamiche dell'uomo vecchio e della donna giovane, toccati nell'atmosfera di quel luogo e di quel soggiorno da reciproca ammirazione e attrazione: complicità intellettuale, sguardi d'intesa, colloqui allusivi, vicinanze emozionanti. La storia pare l'immagine riprodotta nell'alzata, ma il loro sentimento è fragile e delicato come quella porcellana. L'abbozzo d'amore rimarrà in quella villa che l'ha visto accendersi e quale ricordo prezioso che il vecchio professore e la giovane studiosa serberanno nel loro intimo.
Il segno della sua poesia, infine, è stato lasciato nella raccolta Un pennino di stagno (Il Ponte del Sale Edizioni, 2005, a cura di Andrea Zanzotto).
31.10.2019 | In Friuli e Veneto (ma anche in molte altre regioni) era diffusa la tradizione di intagliare zucche con fattezze di teschio e la credenza che nella notte dei morti (all hallow even = la sera di tutte le anime) questi potessero uscire dalle tombe, muoversi in processione, irretire i bambini, ed infine che gli animali nelle stalle potessero parlare. Sempre in Friuli era diffusa una tradizione simile a quella del "dolcetto o scherzetto", ma applicata nelle festività natalizie o carnevalesche, feste che hanno pure origine come riti di passaggio d'anno.
Lungo tutta la penisola italiana è tradizione da secoli preparare biscotti, pasticcini, dolcetti per festeggiare (spesso esorcizzare) la giornata dei defunti e la Festa di Ognissanti. Lasciando da parte l'odierna colonizzatrice e consumistica festa di Halloween, questi dolci secondo tradizione cristiana e precristiana hanno sempre rappresentato l'offerta dei vivi alle anime dei defunti, che nella notte tra il 1 e il 2 novembre ritornerebbero nelle proprie case a fare visita ai parenti.
Numerose sono le ricette per prepararli, variabili per forme e ingredienti da regione a regione: gli ossi da morto detti anche ossa da mordere, il pane dei Morti o pane dei Santi, le fave dei Morti, il torrone dei Morti, la piada dei Morti, la colva, i pupi di zucchero, le rame di Napoli, la frutta di Martorana ...
Procedura: 1 ora 10 minuti |Cottura: 30 minuti | Persone: 8 | Difficoltà: facile
Ingredienti: 400 gr farina, 120 gr zucchero, 100 gr fecola di patate, 100 gr burro, 2 uova, 2 dl vino bianco, 1 bustina lievito vanigliato, q.b. sale
1) Fate ammorbidire il burro a temperatura ambiente, tagliatelo a pezzetti, mettetelo in una ciotola e lavoratelo a crema sbattendo con un cucchiaio di legno. Incorporate lo zucchero, le uova sgusciate, un pizzico di sale e la farina mescolata al lievito e alla fecola passata da un setaccio.
2) Amalgamate infine poco alla volta il vino necessario per ottenere una pasta abbastanza morbida. Dividete la pasta a pezzi, ricavate dei cilindretti grossi come un dito mignolo e tagliateli a pezzetti di circa 10 cm di lunghezza; premeteli al centro con la mano aperta lasciando le estremità un po' più spesse, in modo che prendano la tipica forma di un osso.
3) Disponete gli ossi da morto su una placca rivestita di carta forno tenendoli leggermente distanziati e infornateli per circa 30 minuti a 180 °C. Levateli dal forno e lasciateli raffreddare.
Oderzo, venerdì 18 ottobre, ore 20.30 - Palazzo Moro
Organizzazione:
ANPI sezione di Oderzo e CGIL Treviso
con il patrocinio del Comune di Oderzo
[a. m.] L'eco della pietosa storia del cadetto ungherese Teodoro Kiss e di Caterina Vincenti si diffuse nei reggimenti austriaci di stanza allora nella Venezia, accompagnata da intensa commozione. Trovò spazio, non senza inesattezze ed enfatizzazioni, in giornali di Torino, Milano, Firenze. Sulle pagine della rivista fiorentina di ispirazione democratico-garibaldina La nuova Europa del 5 ottobre 1861, i lettori trovavano la seguente cronaca:
«A Oderzo, nel Veneto, è accaduto un fatto lagrimevole e straordinario. Un cadetto ungherese di buona famiglia s’innamorò perdutamente di una bellissima ragazza di quel paese, e ne fu da lei ricambiato. Però essendo ella onesta, non acconsentì mai ad avere secolui abboccamenti. Corrispondevano quindi per lettera. L’ultima scrittale dal giovane ungherese sempre più insisteva onde ottenere da lei un appuntamento. A questa ella rispose che due circostanze si opponevano assolutamente: l’esser ella ragazza onesta, ed egli ufficiale austriaco: che s’egli però dopo il ritrovo si sentisse la forza d'ucciderla, ella verrebbe la sera stessa al sito ch’egli le indicava. Ove egli non rispondesse a questa sua lettera, sarebbe segno del suo consentimento. L’amante non rispose, e il giorno dopo furono trovati annegati ambidue, abbracciati strettamente in un fiumicello vicino ad Oderzo. Sulla sponda l’ungherese aveva piantato la spada col fodero attraverso formante una croce, la quale era circondata da fiori. L’infelice ragazza fu ritrovata intatta».
Nel clima patriottico di recente unificazione italiana e di delusione per l'ancora irredenta Venezia, le nazionalità di appartenenza dei due giovani, accomunate dall'essere entrambe sotto il giogo dello stesso oppressore austriaco, si prestavano ad essere caricate di valori patriottici oltrepassando il puro significato di disperazione e impotenza a vivere la propria storia d'amore. Il poeta patriota piemontese, David Levi, la cantò subito in una romantica ballata intitolata Italia e Ungheria. Anche Raffaello Barbiera [← treccani.it/dizionariobiografico], a molti anni di distanza ancora non rinunciava - e siamo significativamente nel 1918 (Italiani e ungheresi... d'un giorno: gli amanti d'Oderzo, in Ricordi delle Terre Dolorose, Fratelli Treves Editori, Milano, 1918, pp. 13-25) - a risvegliare nel lettore, senza veri indizi fattuali, l'interrogativo che coniugava passione amorosa e patriottica: «Provava quell'ufficiale ungherese quei sentimenti di libertà che tanti suoi conterranei aggregati nell'esercito austriaco provavano, allora, mal soffrendo il giogo dell'Austria? Amava egli Caterina anco perché figlia d'un cospiratore, d'un nemico delle oppressioni austriache come lui?... Si pensi agli ufficiali ungheresi, che, a Milano, nella sommossa mazziniana del 6 febbraio 1853, s'erano uniti ai nostri cospiratori».
Fatto letterario quasi completamente ignorato è che il suicidio di questi amanti è stato fonte di immediata ispirazione anche per il giovane Giovanni Verga nel suo romanzo “veneto” Sulle lagune, ambientato proprio fra Venezia e Oderzo (terzo della sua prima trilogia di esordi narrativi, dopo Amore e Patria scritto fra i 16 e i 17 anni d’età, rimasto inedito, e I Carbonari della montagna, edito a spese della famiglia nel 1861-1862), pubblicato nel 1862-1863 nella rivista fiorentina La nuova Europa, la stessa rivista sopra citata dove era stato riferito e lo scrittore poté aver letto il «fatto lagrimevole e straordinario» accaduto a Oderzo, nel Veneto.
L'acme del romanzo verghiano è una variante del topos romantico “amore e morte”. I due giovani protagonisti, Giulia Collini, graziosa diciannovenne di Oderzo, e l’ufficiale Stefano De Keller, ungherese ma di sentimenti antiaustriaci, sfibrati dagli ostacoli frapposti al loro amore e convinti ormai dell’impossibilità di coronarlo, concordano un appuntamento notturno sulla laguna veneziana, col patto che egli avrebbe avuto alla fine il cuore di ucciderla. Dentro la gondola che fa da alcova, la passione degli amanti trova finalmente appagamento. Le acque sono increspate da un debole vento e rese scintillanti da una luna magnifica. «Il mare sembra gonfiarsi, come trepidando di un arcano e immenso palpito, e i raggi della luna tremolare più vividi per mischiarsi ai suoi vapori». Uno sposalizio panico e un eden sospirato celebrano anche il mare e la luna: «s’amano e son belli d’amore… anche noi ci abbracceremo come gli atomi di quelle acque e di quella luce … avremo con noi il paradiso!!...». Gli amanti si confessano di essere felici di morire insieme, per eternare il «dolce sogno» che hanno provato un istante. Scambiano l’ultimo bacio, sembrano resistere all’ultimo dubbio che potrebbe disarmare la loro forza di morire: «E se laggiù non fossimo insieme?... se ci separassero?». Giulia fa il balzo per precipitarsi fra le onde, ma - a sorpresa - Stefano spaventato l’afferra con forza convulsa e l’attira a sè. Con parole che suonano ora molto più prosaiche di quelle ebbre e ardenti fino a qualche momento prima pronunciate, invita Giulia a vivere: «È tanto bello l’amore!... e finché c’è vita c’è amore, finché si ama si spera!!». Anche in Giulia, «soffocata da singhiozzi d’amore e di giubilo», il delirio si sgonfia e, lanciatasi fra le braccia di Stefano, lo trascina sotto la felza, mentre la gondola solca le lagune verso Chioggia. Non si saprà più nulla di loro. Il narratore non conclude con la sicura morte. Tre finali evocati lasciano interrogativa la loro sorte: «Vi è chi dice che a notte inoltrata si era veduta una gondola, rimorchiata da quella dell’I.R. Polizia, approdare al Molo da dove i poliziotti avevano condotto in prigione altri sciagurati dei quali nemmeno dovea sapersi più il nome. Vi fu al contrario chi affermò di aver veduto la gondola, scampata miracolosamente per l’aiuto di un legno con bandiera italiana, approdare alla spiaggia libera di Ravenna. Altri infine dissero che i corpi dei due giovani erano stati rinvenuti in un fiumicello vicino ad Oderzo, e che la spada dell’uffiziale ungherese si era trovata sulla sponda, confitta in terra, con una corona di rose intrecciate all’elsa». Questo terzo epilogo è la citazione quasi alla lettera della cronaca giornalistica...
Per la breve riesposizione che segue ho consultato il testo di Raffaello Barbiera, già citato, che rappresenta - credo - la fonte usata da tutti coloro che ne hanno scritto successivamente e afferma di basarsi su documenti e dati ufficiali «favoritigli dal comm. Gasparinetti, già sindaco d'Oderzo, che aggiunse informazioni della propria consorte, cugina di Caterina Vincenti», e il testo di Ulderico Bernardi (L’amore vittima della politica, in Una Terra antica. Cultura storia e tradizioni dell’Opitergino, Editrice Santi Quaranta, Treviso, 2014, pp.176-181), che rinarra la vicenda, scevro della retorica patetico-patriottica del Barbiera. Inoltre Maria Teresa Tolotto, conservatrice degli archivi della parrocchia di Oderzo, mi ha permesso di visionare l'atto di morte (23 settembre 1861) di Caterina Vincenti e Teodoro Kiss, scritto personalmente dall'allora decano parroco del Duomo, monsignor Nardi, e mi ha chiarito altre informazioni di contesto sulle "famiglie" Vincenti e Fautario.
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