AGNOLET Giovanni Battista, ARGENTON Francesco, BIANCO Giovanni, BORASO Angelo, BOZZO Antonio, BRAVIN Luigi, BUFFOLO Nicolò, CALIMAN Bortolo, DAL BEN Giovanni, DAL BEN Giuseppe, DE BIANCHI Emilio, FREGONESE Enrico, MOMI Giuseppe, NARDO Eugenio (Piavon), PICCOLO Luigi, SPADOTTO Luigi, STORTO Aurelio (Piavon), VAZZOLER Luigi, VIDOTTO Pietro, ZANARDO Pietro (Piavon): sono i nomi dei 20 soldati opitergini del 55° Reggimento fanteria “Marche” morti nella più grave tragedia navale italiana, l’affondamento del piroscafo “Principe Umberto”, l’8 giugno 1916, silurato dal sommergibile austroungarico U5 al largo di capo Linguetta nelle acque albanesi del canale d’Otranto, mentre il naviglio era in trasferimento marittimo dall'Albania al fronte dell'Isonzo.
Si contarono soltanto 895 sopravvissuti, mentre 1926 furono le vittime: 110 marinai dell’equipaggio, 52 ufficiali e 1764 soldati del 55° Reggimento fanteria “Marche”, di cui 521 soldati provenienti dal trevigiano. Tra loro c'erano, oltre ai 20 di Oderzo già citati,
E così via. Per giorni e giorni il mare restituì alla spiaggia di Valona corpi straziati e irriconoscibili di marinai e fanti italiani che vennero sepolti senza nome ai bordi della strada che da Valona sale verso Kanina.
L'occasione per riportare alla memoria questa immane tragedia a 106 anni di distanza è la certezza che la nave, localizzata dall'ingegnere italo-svizzero Guido Gay - esploratore di abissi in cerca di relitti - e successivamente raggiunta a 930 metri di profondità da un mezzo sottomarino robotizzato che ne ha permesso l’identificazione, sia proprio quel che resta della “Principe Umberto". «Con il sonar», ha spiegato Guido Gay, «abbiamo individuato la presenza del relitto già al primo passaggio, circa un mese fa. Le caratteristiche del relitto, addirittura con un fianco che sporgeva dal fondo, rilevate dal sonar ci davano la quasi certezza che si trattasse proprio di quella nave. L’identificazione visiva è stata effettuata la settimana scorsa. Siamo tornati sul posto qualche giorno dopo il rilevamento sonar, ma ci siamo scontrati con le forti correnti dal canale d’Otranto. Per due volte non siamo riusciti a far scendere in profondità il robot sottomarino, una volta ha raggiunto il fondo, ma è finito lontano dall’area dove il sonar aveva rilevato la massa metallica. Finalmente, il quarto tentativo è stato quello buono: il robot è riuscito a raggiungere il relitto e a ispezionarlo, scattando le immagini che ci hanno dato la certezza dell’identificazione».
Il collaborazione con Provincia di Treviso, CGIL Treviso e La Tribuna, l'ISTRESCO (Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana) ha appena stampato Squadristi veneti all’assalto di Treviso. 12-14 luglio 1921, a cura di Lucio de Bortoli e Amerigo Manesso, con un'introduzione di Ernesto Brunetta.
La nuova pubblicazione è accompagnata da una presentazione (lunedì 12 luglio 2021, presso la loggia dei Cavalieri a Treviso) e dalla rievocazione storica degli eventi di un secolo fa (martedì 13 in Prato della Fiera) con la compagnia Metàz Teatro e la cantautrice Erica Boschiero che metteranno in scena la rappresentazione teatrale dell’assalto, in particolare di quello a Fiera con la resistenza degli abitanti (tratta dal libro “Assalto a Treviso – La spedizione fascista del 13 luglio 1921” di Francesco Scattolin).
Video | facebook.com/CgilTreviso/videos/343326410627468
Il libro sarà disponibile in allegato con Tribuna da martedì 13 luglio in edicola al prezzo di 13 euro invece di 22 + il prezzo del quotidiano.
Politica e memoria di Lucio De Bortoli e Amerigo Manesso (Introduzione al libro Squadristi veneti all’assalto di Treviso. 12-14 luglio 1921)
La spedizione a Treviso del 13 luglio 1921 è stata uno dei capitoli più rilevanti dello squadrismo fascista a livello nazionale. Lo è stata per numero di partecipanti, capillarità dei fasci coinvolti e capacità organizzativa. Lo è stata anche sotto il profilo strategico, come cerchiamo di dimostrare.
Un‘azione studiata sin nei minimi particolari, persino attraverso il rastrellamento dei mezzi militari ancora presenti sul Grappa – particolare già di per sé inquietante e rivelatorio – e che si è svolta mettendo a nudo non solo la totale impotenza delle autorità preposte alla pubblica sicurezza e alla difesa della legalità, ma anche forme di connivenza, se si enumerano i provvedimenti non assunti dal prefetto Pietro Carpani al quale erano pervenute le informative della prefettura di Padova su quanto si stava predisponendo.
Non è qui il caso di entrare nei dettagli a cui sono dedicati i saggi di apertura, se mai di sottolineare alcune singolarità.
La prima è di ordine politico. Nella stragrande maggioranza dei casi, come è a tutti noto, lo squadrismo fascista aveva nel mirino il mondo socialista: partito, organizzazioni, sedi, leghe e cooperative per l’evidente ragione che i socialisti avevano avuto, nelle diverse tornate elettorali (politiche e amministrative) precedenti, un grande successo. In subordine, l’onda squadrista si scagliava anche contro le leghe bianche della Pianura padana e il Partito popolare. A Treviso, a questi bersagli tradizionali, si aggiunse quello che sul piano locale stava diventando un problema ancor più grosso, vale a dire il protagonismo e il successo di Guido Bergamo e dei repubblicani trevigiani, rei di pescare in un bacino elettorale affine a quello fascista. Bergamo, per la verità, attingeva anche negli altri partiti di massa, ma ciò divenne persino un’aggravante, perché consentiva ai fascisti di affiancare al tradizionale epiteto di “traditore” o di “maddaleno” anche quello di “socialista”. Colpire Bergamo significava, peraltro, anche lanciare un esplicito messaggio all’amministrazione laica della città guidata dal sindaco Levacher.
Un’ulteriore valenza politica alla vicenda di Treviso è data dal fatto che rende evidenti le conflittualità interne al movimento dei fasci nel quale la leadership di Mussolini, proprio in quelle settimane di trattative per la pacificazione con i socialisti, tenta di imporsi sui ras locali come Marsich e Marinoni. L’operazione squadrista indica quale linea, quali alleanze e quali strategie finiranno per prevalere nel giro di pochi mesi.
La seconda singolarità è invece di ordine culturale e conferma, una volta di più, i percorsi tortuosi e non sempre lineari della memoria. In altri termini. Abbiamo pensato questo volume innanzitutto come un’antologia, una grande rassegna stampa. L’abbiamo pensato così perché l’Istresco aveva già editato, ormai vent’anni fa, l’ottima ricostruzione di Francesco Scattolin, ma soprattutto per porre in evidenza come un evento capace di produrre nel presente di allora una sterminata mole di articoli – la nostra è solo un’antologia e come tale una selezione – ha poi subito un pressoché totale processo di rimozione e ben al di là del ventennio fascista. Non è infatti un mistero per nessuno che sui quei fatti, anche in età repubblicana, sia sceso un oblio che, nella migliore delle ipotesi, va ascritto ad una progressiva e fatale disattenzione. Resta il fatto che in centro città non c’è nulla che testimoni e dia conto di quanto accaduto, fatta eccezione per un’intitolazione viaria piuttosto generica.
Questo volume offre la possibilità di prendere visione del dibattito politico di allora, restituisce i diversi gradi di comprensione degli eventi e fornisce criteri idonei per indagare lo scarto che separa, ma nello stesso tempo rende inscindibili, la cronaca e la storia.
Pensiamo inoltre, che da questa rassegna, che dà conto delle voci coinvolte, possa rigenerarsi un processo memoriale rimasto troppo a lungo e colpevolmente inerte. Si tratta di riconsiderare in che modo, dopo aver attraversato la lunga stagione del totalitarismo, siamo approdati all’oggi. Ogni approdo si raggiunge attraverso una navigazione. E se l’approdo è l’esercizio della democrazia, la navigazione è la consapevolezza e il progressivo ripudio della pratica della violenza. | Fonte: facebook.com/Istresco/
A novembre del 1869, dopo dieci anni di lavori, fu inaugurato in Egitto il Canale di Suez. Realizzato dal diplomatico francese Ferdinand-Marie Lesseps su progetto dell'italiano Luigi Negrelli [1], il canale permetteva, con una navigazione di soli 116 chilometri, di raggiungere il Mar Rosso dal Mar Mediterraneo senza circumnavigare l'Africa.
Perché parlarne qui?
Già tre secoli e mezzo prima, nel 1504, lo scavo di un canale che tagliasse l’istmo di Suez per congiungere via mare il Mediterraneo alle Indie era un progetto veneziano. Il tempo per raggiungere le Indie con le navi si sarebbe drasticamente ridotto rispetto a quello impiegato dalle carovane sulla tradizionale via delle spezie [2]. Nel calcolo veneziano il canale era da proteggere «al una et l’altra bocha» con due fortezze per controllare l’accesso e impedirlo soprattutto ai portoghesi, che in quel momento storico erano la concorrenza più pericolosa agli interessi mercantili di Venezia e dell'Egitto nel commercio delle spezie dall'Asia all'Europa, dopo la nuova rotta aperta dai lusitani stessi che arrivava in India circumnavigando l'Africa.
Il progetto si legge nella minuta di un documento del Consiglio dei Dieci del 24 maggio 1504 con cui si affidava all’ambasciatore Francesco Teldi (in realtà a Bernardino Giova che sostituirà il Teldi ammalatosi), l’incarico di incontrare il sultano d’Egitto anch'egli impegnato a reagire alla minaccia economica.
«A impedir et del tutto interromper la navigation de portoghesi, videlicet che cum multa facilità et brevità de tempo se potria far una chava dal mar rosso che mettesse a drectura in questo mar de qua, come altre volte etiam fo rasonado de far: la qual chava se potria assegurar al una et l’altra bocha cum do forteze per modo che altri non potrian intrar ne ussir, salvo quelli volesseno el Signor Soldan. La qual cava facta, se potria mandar quanti navilij et galie se volesse a chazzar li portogalesi che per alcuno modo non potrian parer in quelli mari. Questa cava intendemo saria cum grande segurtà del paese del Signor Soldan et dovria dari infinita utilitade a quello, però volemo che non in la prima audientia che haverai dal Signor Soldan ma in una altra audientia cum grande dexterità et a qualche bon proposito rasonando dele provision necessarie ut supra tu devi dir che molti de qui recordano essa cava monstrando più presto de refferir le opinion de homeni periti in simel cose, che alcun fermo nostro obiecto et racordo azio el prefato Signor Soldan non prendesse alcuna ombra. Che fassamo tal rechiesta a nostra particolare utilità et danno del Signor Soldan e pericolo del stado suo, et però te forzerai proponerla cum tal modo che tal proposition sia aceptada in bona parte et supratuto li farai intender quanti beni succedarian dala cava predicta».
A parte le implicazioni economiche e politiche, è un’opera “faraonica” che non spaventerebbe tecnicamente gli ingegneri veneziani. Avevano già creato fosse e canali artificiali per deviare il corso dei fiumi e preservare la loro laguna dall’interramento. E neppure doveva apparire assurda dal momento che - nel grande revival di testi classici greci e latini e di studi umanistici del Rinascimento - a Venezia si era ritrovata la memoria di un antico percorso acqueo che congiungeva i due mari in tempi antichissimi, prova che l'opera era fattibile [3].
La proposta, che si può ben immaginare dibattuta anche nelle sale di Palazzo Ducale, resta però nel cassetto, come dimostrano i tratti di penna tirati sulla minuta [4], e non verrà avanzata - pur con tutte le cautele già preventivate - al sultano. Non figurò più fra le direttive impartite all'ambasciatore e non trapelò in Egitto.
A farla regredire a vaga possibilità, da riprendere eventualmente in altre congiunture, avranno influito sia valutazioni strategiche diplomatiche e politico-militari (se ne possono ricavare dalla minuta stessa) sia la stima dei reali andamenti commerciali. Un’ingerenza veneziana così smaccata poteva urtare il sultano. Il controllo della “chava” in mano ai mamelucchi poteva ritorcersi alla lunga contro i veneziani stessi, essendo il rapporto con la costellazione mamelucca e ottomana sempre esposto a possibili conflitti per preservare il dominio veneziano “da mar”. Un’aperta collaborazione - sia pure a soli fini mercantili – con l’Egitto poteva rinfocolare l’ostilità delle potenze europee e degli altri stati italiani già insofferenti per l’espansione veneziana quattrocentesca (lo “stato da tera”) nella terraferma lombarda, veneta, friulana e dalmata, e farla sfociare in atti di guerra contro Venezia, se non fosse stata più gestibile con la pur eccellente diplomazia manovriera da parte della Repubblica.
Secondo qualche storico, inoltre, all’immediata reazione preoccupata e totalmente pessimistica seguita all’apertura della nuova rotta transoceanica portoghese, si affiancava una presa d’atto più realistica che la circumnavigazione dell’Africa si sarebbe alla fine comunque imposta sulla via delle spezie tradizionale e, forse, non era difficile riposizionarsi all’interno dei nuovi equilibri “mondiali”, puntando sulla “qualità”, sul brand – come si direbbe oggi – e sulla fascia alta del mercato. I riscontri non tardarono a venire. Il pepe commerciato a Lisbona si attestava ad un prezzo che non faceva una concorrenza agguerrita a quello veneziano e risultava spesso di qualità decisamente inferiore, dopo aver viaggiato molti mesi in stive umide, a paragone di quello trasportato fino al Mediterraneo.
Il vero scacco geopolitico per la centralità mediterranea, e il dominio veneziano, sui traffici marittimi mondiali non sarebbe stato la mancata apertura del canale di Suez nel 1504 e il primato marittimo-commerciale portoghese sull’oceano indiano e pacifico, ma la scoperta e la valorizzazione delle Americhe, delle nuove Indie, con l’imporsi della centralità atlantica. Ma questo è il senno di poi.
Nel 1487-1488 Bartolomeo Diaz, navigando dal lato atlantico, aveva raggiunto il punto più meridionale dell'Africa, da lui denominato Capo delle Tempeste, e contemporaneamente Pêro da Covilhã aveva viaggiato per terra fino a Calicut, esplorando possibili fonti di approvvigionamento di spezie sul subcontinente indiano. Non rimaneva che cercare di unire i due segmenti del viaggio. Un decennio dopo, Vasco Da Gama, salpato da Lisbona l’8 luglio 1497, dopo aver doppiato il Capo delle Tempeste, da lui ribattezzato in forma più beneaugurante Capo di Buona Speranza, aveva risalito la costa orientale del continente fino a due città dell’attuale Kenia: Mombasa, dove i commercianti arabi tentarono di sabotarne il viaggio, e poi Malindi, allora in feroce concorrenza con Mombasa, dove invece il sultano gli mise a disposizione l’esperto navigatore yemenita Ahmad b. Majid al-Najdi per aiutarlo ad attraversare l'oceano Indiano e arrivare sulla costa sud-occidentale dell’India (attuale stato del Kerala), sbarcando al porto di Calicut (attuale Kozhikode, Calcutta) il 20 maggio 1498.
Erano le prime navi europee mai approdate nel subcontinente indiano. Si dischiudeva la “via marittima delle Indie” (cioè le regioni sud-orientali dell'Asia), così a lungo ricercata per sottrarsi all’intermediazione di commercianti arabi, persiani, turchi e veneziani, che gravava sul prezzo delle spezie orientali come il pepe, la noce moscata e i chiodi di garofano.
A Calicut Vasco Da Gama, sia pur dopo mesi di trattative per ottenere vantaggi commerciali con lo Zamorin (il principe locale), fortemente avversate dai mercanti arabi del luogo, ottenne una concessione. Ripartì l’8 ottobre, lasciandosi dietro alcuni dei suoi uomini con l’incarico di stabilire un insediamento commerciale.
La notizia arrivò a Venezia l’anno seguente. Nell’agosto del 1499, al mercato di Rialto si raccontava delle tre caravelle con le insegne del re di Portogallo approdate ad Aden e a Calicut. Fu a stento creduta. Si giudicava smisurata la nuova rotta, estremi i pericoli per avventurarvisi, assolutamente aleatorio il ritorno - quand’anche fossero riuscite ad arrivare - per navi cariche di preziosissime spezie.
Si intuiva però che - se la voce fosse stata vera – erano minacciati di crollo i commerci delle spezie che facevano la ricchezza di mercanti e nobili veneziani, ma anche dei mamelucchi d’Egitto.
Venezia non era certo inesperta di momenti di crisi commerciale ed economica, ma le turbolenze e i danni arrecabili dai concorrenti attivi sulla via alternativa aperta dai Portoghesi costituivano un pericolo molto più grave delle periodiche bolle speculative sui prezzi delle spezie, possibili anche a causa delle guerre intermittenti con gli Ottomani, come in quello stesso 1499, quando le galee allestite per commerciare furono requisite per andare a combattere e si erano creati scompensi fra stock immagazzinati e nuovi approvvigionamenti mancati.
Lettere da Lisbona nel luglio 1501 su arrivi di spezie direttamente dalle isole asiatiche attestavano che il traffico si sviluppava e sembrava non incontrare ostacoli importanti. Se da qualche parte si esorcizzava la minaccia, considerata ancora insufficiente ad affossare i commerci della Serenissima, altri – come il diarista Girolamo Priuli[5] – presagivano la rovina della città: i veneziani, ultimi di una trafila di intermediari, costretti a rifornirsi sulle coste del Levante di spezie sempre meno numerose in arrivo rispetto a un tempo, si trovavano a competere con nuovi rivali, acquirenti a basso prezzo nei porti dell’India e venditori diretti in Europa.
Lo scenario più pessimistico sembrava avverarsi quando a novembre si seppe in città dell’impresa recente del portoghese Pedro Alvares Cabral: bombardamento di Calicut, acquisto di spezie in un porto vicino, affondamento della flotta araba il cui carico diretto in Egitto era andato perduto privando di rifornimenti gli intermediari mediterranei. Il prezzo del pepe schizzò alle stelle. Per i mercati di Venezia, Alessandria e il Cairo ci furono alcuni anni di sconvolgimenti: irregolarità del ritmo dei viaggi e assottigliamento della quantità delle spezie che arrivavano dall’India. Veneziani ed egiziani si trovarono con interessi da difendere sempre più convergenti [6].
In Egitto, per reagire alla minaccia economica, il sultano mamelucco Bayezid II (1481-1512) mirava per il 1505 ad un’azione militare anti-portoghese insieme con il sovrano di Calicut. Teatro di scontro non potevano che essere Mar Rosso, Golfo Persico e Oceano Indiano - sedi fino ad allora più di scorrerie piratesche che di guerre navali - da riportare sotto un controllo più stretto, ma i sovrani mamelucchi erano sostanzialmente privi di flotta, avendo lasciato che del mare si occupassero le popolazioni rivierasche. Dovevano cercare - presso gli stati amici - tecnici navali, artiglieri e materiale strategico, come legno per imbarcazioni. Interpellata, Venezia preferì restare “coperta” lasciando intendere che «se gente dello Stato da Mar fosse andata volontariamente in Egitto non sarebbe stata trattenuta», ma non si sarebbe impegnata ufficialmente.
Roma, Francia, Spagna e persino Portogallo, furono “avvertiti” sulle possibili ritorsioni, se non si fosse bloccata la nuova via, come la chiusura della basilica del Santo Sepolcro ai pellegrini europei.
Quando Bayezid II ottenne dal sultano ottomano Qânsûh al-Ghawrî uomini e rifornimenti per allestire una flotta nel Mar Rosso, non pensò tuttavia di ridurre i prezzi, come proponevano i veneziani ad esempio per il pepe, ma anzi li aumentò nell’intento di lucrare un utile che bilanciasse la diminuzione delle merci arrivate. A dimostrazione della tutt'altro che agevole concertazione tra veneziani ed egiziani.
A partire dal 1517 la dinastia mamelucca fu scalzata da quella ottomana, col sultano Selîm I e poi suo figlio Solimano I (conosciuto come il Magnifico in Europa e il Legislatore in Turchia). Il gran visir Pargali Ibrâhîm pascià [7], amico del sovrano, inviato in Egitto, ebbe l'incarico di riorganizzare e dotare di nuovi ordinamenti le terre entrate a far parte dell’Impero ottomano. Nelle incognite della nuova situazione, i veneziani mantenevano accordi commerciali col nuovo potere per non interrompere il traffico delle galee da mercanzia, ma avevano trovato conveniente accordarsi anche con i portoghesi e con loro avevano firmato un trattato il 2 gennaio 1522. Per continuare a godere di una politica sufficientemente filo-veneziana da parte di Costantinopoli, ma senza dover esporsi, la Repubblica lasciava questo compito - senza quindi direttive cogenti – ad una rete di suoi uomini, a vario titolo presenti nell’Impero ottomano, come l’allora bailo a Costantinopoli, Pietro Bragadin, divenuto amico del gran visir, o come il corsaro Giovanni Contarini “Cazzadiavoli” e il capitano e costruttore navale Giovanni Francesco Giustinian, inviati come esperti navali - senza che lo stato ne fosse ufficialmente coinvolto - per sostenere la guerra che allora i turchi combattevano contro i portoghesi.
Nel periodo (1523-1536) in cui governò l'Egitto, Pargali Ibrâhîm pascià pensò anche ad una via d’acqua diretta tra Mediterraneo e Mar Rosso. L’idea, segretamente soppesata nelle stanze del Consiglio di Dieci nel 1504, riaffiorava nel divano imperiale d’Istanbul. Disponiamo della testimonianza di Alvise Roncignotto che in due successivi viaggi nel 1529 e nel 1532-33 constatò l'opera intrapresa per riaprire l’antico “canale dei faraoni” che univa il Mar Rosso al Mediterraneo (risalente secondo lui ai tempi dei romani) e vide circa 12.000 uomini impegnati nel lavoro. Con l'esecuzione capitale nel 1536 di Pargali Ibrâhîm pascià, divenuto inviso a Solimano che temeva per il suo stesso trono, il progetto decadde e lo scavo del canale non fu completato. Da ultimo, ne riconsiderò l'attuazione Sokollu Mehmed pascià, gran visir dell'Egitto tra il 1565 e il 1579, secondo una logica allargata e multipolare, data l'estensione vicina al suo apice che l'impero ottomano stava raggiungendo, dall’Europa, all’Asia e all’Africa. Perciò Sokollu a est «fece avviare i lavori per un canale che unisse il Don al Volga e quindi mettesse in comunicazione il Caspio con il Mar Nero» e a sud «fece riprendere gli scavi tra Suez e il Nilo come parte finale di una nuova rotta turca delle spezie, alternativa a quella che arrivava fino a Lisbona». Ma a pochi anni dalla sua morte, anche in questo caso, lavori e progetto vennero nuovamente sospesi.
Si dovranno aspettare la "Campagna d'Egitto" di Napoleone (dissuaso dal suo ingegnere Jean-Baptiste Le Père) e Metternich (ispiratore della Société d’études du canal de Suez, fatta di specialisti francesi, inglesi e asburgici, guidata da Luigi Negrelli), l'ex-diplomatico francese Ferdinand de Lesseps (incaricato dai governi egiziano e francese di occuparsene) e la nuova Commissione scientifica internazionale incaricata di selezionare il progetto migliore (presieduta dal veneziano Pietro Paleocapa, progettista di importanti interventi alle bocche portuali della laguna veneta), per riaffrontare il problema e creare le condizioni economiche e politiche del taglio di Suez.
* * *
Venezia e l'Egitto
Sul canale di Suez
Con l'adozione del calendario gregoriano, dal 4 ottobre si passò direttamente al 15 ottobre
Il calendario gregoriano - così denominato in onore di Gregorio XIII, il papa che il 4 ottobre 1582 con la bolla Inter gravissimas lo fece adottare a quella parte di cristianità che era fedele a Roma - prevedeva un nuovo sistema di calcolo per correggere l'errore del previgente calendario giuliano che - basandosi su una durata media dell'anno di 365 giorni e 6 ore (la media di tre anni di 365 giorni e uno bisestile di 366), circa 12 minuti più della durata dell'anno solare medio - aveva accumulato circa un giorno di ritardo ogni 128 anni rispetto al trascorrere delle stagioni.
Tra il 325, anno in cui il Concilio di Nicea stabilì la regola per il calcolo della Pasqua, e il 1582 si era ormai accumulata una differenza di circa 10 giorni. Questo significava, ad esempio, che la primavera, in base alle osservazioni astronomiche, non risultava più cominciare il 21 marzo, ma già l'11 marzo. Quest'incongruenza era molto grave in ambito cattolico, in quanto venivano spesso a cadere nella data sbagliata sia la Pasqua, il cardine dell’anno liturgico, che sarebbe dovuta coincidere con la prima domenica dopo il plenilunio di primavera, sia i periodi liturgici collegati ad essa, cioè la Quaresima e la Pentecoste.
Per recuperare i dieci giorni perduti si stabilì che il giorno successivo al 4 ottobre 1582 fosse direttamente il 15 ottobre e, per evitare interruzioni nella settimana, si convenne che il 15 ottobre fosse un venerdì, dal momento che il giorno precedente, il 4, era stato un giovedì.
Il calendario gregoriano fu adottato da molti stati cattolici, ma non tutti si uniformarono immediatamente (come gli stati italiani e il Portogallo). Altri si presero un po' di tempo. La Francia lo accettò a fine anno, nel mese dicembre. In date diverse nell'arco dei cinque anni successivi (1583-1587) aderirono i Paesi Bassi cattolici, l’Austria e la Baviera, la Boemia e Moravia e cantoni cattolici della Svizzera, la Polonia, l’Ungheria. Anche i paesi che adottarono il calendario gregoriano successivamente dovettero stabilire un analogo "salto di giorni" per riallinearsi.
A proposito della Repubblica Veneta, si può qui ricordare che l'introduzione del calendario gregoriano non aveva stravolto l'uso ufficiale e il capodanno veneto, fissato il 1º marzo (com'era nel calendario giuliano), rimaneva quindi una festività ufficiale della Serenissima Repubblica. Nelle date dei documenti si ovviava a possibili fraintendimenti affiancando la dicitura latina more veneto, ossia "secondo l'uso veneto". Una data generale come 27 febbraio 1720 corrispondeva al 27 febbraio 1719 more veneto, in quanto l'anno 1720 sarebbe iniziato in Veneto solo a partire dal mese seguente. Il 1° marzo 1720, invece, era tale sia secondo il calendario gregoriano sia more veneto.
I paesi protestanti resistettero inizialmente al nuovo calendario "papista" e vi si adattarono solo in epoche successive: gli stati luterani e calvinisti nel 1700, quelli anglicani nel 1752, quelli ortodossi ancora più tardi. Le Chiese ortodosse russa, serba e di Gerusalemme continuano tutt'oggi a seguire il calendario giuliano: ciò spiega il persistere della differenza attuale di 13 giorni tra le festività religiose "fisse" ortodosse e quelle delle altre confessioni cristiane.
Per quanto riguarda i paesi non cristiani, in Giappone fu adottato nel 1873, in Egitto nel 1875, in Cina nel 1912 e in Turchia nel 1924. Interessante perché travagliato fu il processo di introduzione da parte della Svezia (dal 1699 al 1753) e quello nell'Unione Sovietica, che dapprima lo recepì nel 1918, poi lo modificò - sull'individuazione degli anni bisestili - a favore di un proprio Calendario rivoluzionario sovietico (1923), infine abbandò quest'ultimo già nel 1940 per tornare al calendario gregoriano.
Nelle pagine del Dialogo, Maria Teresa Tolotto, direttrice dell'Archivo parrocchiale e del Museo del Duomo di Oderzo, sta ricostruendo - mentre viviamo le tragiche occorrenze di questi mesi di diffusione del coronavirus - la memoria storica della più lontana delle epidemie che colpì anche le nostre terre, quella della peste nel 1630-31.
«Nel 1629 a Gorgo, Motta, Piavon, Oderzo, Portobuffolè, morirono di fame centinaia di persone; seguì nel 1630 un’epidemia di vaiolo, con conseguenze disastrose per una popolazione già tanto provata. Le avversità non erano finite, già dalla primavera del 1631 cominciarono ad essere registrati decessi per peste a Motta e Portobuffolè. Questi comuni decisero di chiudere le loro città, non permettendo a nessuno di entrarvi ed uscirvi. Furono adottate le leggi in materia di Sanità ... → LEGGI TUTTO →
»Così non fu per Oderzo che tergiversò permettendo lo svolgimento di attività economiche e cercando di dare un po’ di respiro alla povera gente di campagna che, già provata dalla fame, cercava di riscattarsi in città con la vendita dei prodotti degli orti e del pollaio. Queste scelte furono deleterie e si possono ancora contare nei registri dell’archivio del Duomo più di 700 morti nel tempo dell’epidemia che durò circa sei mesi. Nella fase più acuta si contano 400 morti in soli due mesi su una popolazione che nel centro città era di circa 2 mila persone... → LEGGI TUTTO →
Tintoretto, San Rocco risana gli appestati, Chiesa di San Rocco Venezia | Fonte dell'immagine: upload.wikimedia.org/wikipedia
Vari giornalisti, durante questa quarantena, hanno riscovato e rimpallato ai loro lettori una sorprendente premonizione uscita nel 2017: Asterix e Obelix sconfiggono Coronavirus. Il Covid-19? No ahinoi, non ancora. Il Coronavirus battuto è l’«auriga mascherato» (vero nome Testius Sterone) accompagnato dallo scudiero Bacillus, che capeggia la squadra romana nella corsa di carri “Modica-Neapolis” (la Monza-Napoli), organizzata dal corrotto senatore Lactus Bifidus, col consenso di Cesare a condizione che a trionfare sia un competitor romano.
Accusato di sperperare per le proprie orge (a base di tiramisus, peraltro...) i fondi pubblici destinati alla manutenzione delle strade, con la “Corsa d’Italia” tra tutti i popoli dell’impero voleva dimostrare invece l’eccellenza delle vie da lui amministrate lungo tutto il territorio italico e, per esser sicuro della vittoria, aveva arruolato dunque l’auriga romano più agguerrito e acclamato dalle folle.
I due rappresentanti dei Galli gli rovineranno i piani. Obelix, iscrittosi alla competizione, perché un’indovina gli aveva pronosticato un futuro di auriga vittorioso, compra a credito una quadriga e si mette in pista con a fianco Asterix e non senza pozione magica.
Perché chiamare Coronavirus il “cattivo” della storia? I disegnatori Jean-Yves Ferri e Didier Conrad (che dal 2013 portavano avanti la spassosissima riscrittura della storia romana con le avventure degli ormai mitici personaggi creati da René Goscinny e Albert Uderzo) avranno probabilmente preso spunto dalle cronache del 2002 e del 2012, in cui diventava noto che l’epidemia di Sars, prima, e quella di Mers, poi, erano entrambe causate dalla famiglia dei coronavirus. All’uscita dell’album, evidentemente, la minaccia sembrava ormai abbastanza lontana da poterci scherzare su. Nell’intenzione originale, Coronavirus doveva essere uno dei tanti nomi buffi presenti nell’album.
Anche se l’onomastica del cast del 37° albo della serie scimmiotta il dizionario medico - Testius Sterone, Bacillus, Lactus Bifidus - escludiamo che siano stati guidati dalla preveggenza. Quanto a Coronavirus, il nome latino esce dall’unione di “corona” (quella d’alloro, per antonomasia, che coronava i vincitori) e “virus” (veleno), appellativo adatto a incutere timore reverenziale verso il vincitore e adombrare pericolosa minaccia per l’avversario. Peraltro, Coronavirus, pur noto imbroglione, reclutato dal corrotto senatore, si rivelerà onesto e corretto, almeno nel caso dei fortunati galli, in quanto finirà per ritirarsi quando scoprirà il suo co-pilota Bacillus intento a barare per vincere la gara.
Francesco Prisco (ilsole24ore.com | 2.3.2020) ricorda che «Quando qui da noi uscì con Panini Comics “Asterix e la corsa d’Italia” (Astérix et la Transitalique) nessuno se la filò o quasi, ma quella storia infarcita di stereotipi, come prevede il canovaccio della serie, metteva in fila due o tre cose che, lette con il senno di poi, ci regalano un mirabolante effetto sfera di cristallo».
L’avventura di Obelix e Asterix ha il finale scontato. La vittoria della gara, ovviamente truccata, tra sabotaggi, incidenti e tranelli di ogni tipo, non dovrebbe che andare al romano Coronavirus, che raccoglie le isteriche ovazioni dei tifosi lungo il percorso. Coronavirus (a cui alla fine si era sostituito in segreto Giulio Cesare stesso in un estremo tentativo di salvare l'onore di Roma) verrà invece battuto per un soffio dai nostri eroi, dalla pozione magica e proprio dalle condizioni disastrate delle italiche strade, piene di buche…
Un'immagine inquietante e straniante resta, tuttavia, preveggenza o non preveggenza: le folle disegnate tre anni fa acclamare urlando «Coronavirus-Coronavirus»...
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Il 24 marzo scorso quasi novantatreenne è morto Albert Uderzo, a Neuilly. Era nato il 25 aprile 1927.
Albert Uderzo alla Zecca di Parigi per la presentazione delle monete dedicate ad Asterix e Obelix (25.3.2015) | internazionale.it/notizie
Asterix, Obelix, Panoramix, Ideafix ... non c’è quasi bisogno di ricordare chi sono, i personaggi di uno fra i fumetti più famosi e venduti al mondo, tradotto in centinaia di lingue e trasposto in una serie di film (impari, a dire il vero, rispetto ai disegni e ai testi originali).
Ora sono senza i loro creatori. Dopo la prematura scomparsa dello sceneggiatore René Goscinny nel 1977, anche il loro disegnatore Albert Uderzo li ha lasciati il 24 marzo scorso. La saga della resistenza - grazie a una pozione magica - della bellicosa tribù di Galli dell’Armorica (l’odierna Bretagna) alla dominazione romana e a Cesare in persona resterà una grande opera non solo finemente umoristica, ma anche carica delle più varie implicazioni, storiche, morali, culturali ... per riandare all’Europa della romanità e a quella dei nostri tempi.
Di Albert Uderzo - a causa del cognome non tanto simile ad "Oderzo" quanto identico ad una attestata più antica denominazione desueta di Oderzo, cioè "Uderzo" - si è con disinvoltura spesso ritenuto che le origini famigliari remote non potessero non essere “oderzine”, anche se i dati inoppugnabili sono la nascita del nostro Alberto Aleandro Uderzo il 25 aprile 1927 a Fismes, nel dipartimento della Marna, in Francia, da genitori italiani immigrati: il padre Silvio Leonardo Uderzo vicentino di Piovene Rocchette, la madre Iria Crestini ligure nata a La Spezia. Risalendo biograficamente oltre il padre dentro l’Ottocento, i dati già diventano più difficilmente reperibili e controllabili.
Lo stesso Albert, al corrente di queste possibili “radici” in territorio della romana Opitergium, avrebbe a vent’anni fatto «un viaggio fino a Oderzo, per visitare i parenti del padre, rintracciando così le proprie origini». Non sono in grado in questo momento di verificare da dove sia tratta questa notizia che riporta Barbara Bisazza (Se Asterix e Obelix sono originari da Oderzo, Il Sole24Ore, 14 luglio 2016 | st.ilsole24ore.com). Documentata è invece la visita fatta decenni fa nella cittadina “dei natali”, come mostra la foto pubblicata (Edition du chène – Hachette-Livre, 2002), «suggestionato dall’ipotesi che i suoi antenati provenissero da un centro relativamente importante in epoca romana, lui che era divenuto famoso per un fumetto ambientato proprio in quel mondo. Questo al punto che nella propria autobiografia si definì scherzosamente il discendente di un bambino salvato tra le rovine della città appena distrutta dai barbari».
Ne ricorda quest'aspetto Andrea Pizzinat, nell'utile articolo "Albert Uderzo e le sue (non più) presunte origini opitergine" pubblicato da poco sull’Azione (5.4.2020) e riportato sul suo blog ciaolord.wordpress.com.
Albert Uderzo a Oderzo | Fonte della foto: Édition du chêne - Hachette-Livre, 2002
L’articolo di Andrea Pizzinat appena citato è pregevole perché non si accontenta di ripetere solamente la vexata quaestio, ma apporta un tassello nuovo e ragionato per l’ “archeobiografia” dei progenitori di Albert Uderzo:
«Dove sta la verità? Maria Teresa Tolotto, conservatrice dell’archivio parrocchiale di Oderzo, ha ammesso che nelle sue ricerche nei registri, compresi quelli civili, non ha ancora riscontrato la presenza di una famiglia Uderzo in città. Però i cognomi uguali a nomi di città sono genericamente di origini ebraiche (si pensi all’ebreo Emanuele Conegliano, nome alla nascita del celebre Lorenzo Da Ponte) ed è fuori discussione che nella comunità ebraica opitergina ci fosse anche una famiglia Oderzo. L’ipotesi ci è stata confermata anche dal dott. Giovanni Tomasi del Circolo Vittoriese Ricerche storiche, studioso delle comunità giudaiche in sinistra Piave, il quale ha aggiunto che nel corso degli anni il cognome ha subito delle variazioni tipo appunto Uderzo o Oidirz (in lingua yiddish). Grazie anche al contributo di un cugino italiano del fumettista contattato dalla Tolotto, si possono tirare queste conclusioni: all’interno delle comunità ebraiche residenti nel territorio opitergino (quindi non necessariamente in città, ma anche per esempio a Portobuffolè) esistevano delle famiglie Oderzo; come spesso capitava emigrarono altrove; un ramo della famiglia residente a Venezia ottenne dalla Serenissima la licenza di effettuare prestiti su pegno in Istria; da lì in seguito si trasferì nuovamente, stavolta a Piovene Rocchette, città natale di Silvio Leonardo Uderzo, padre del disegnatore, il quale a sua volta emigrò in Francia agli inizi del Novecento. Fine della storia.»
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Senza nessuna intenzione di invocare restaurazioni riparatrici del perduto capodanno more veneto, oggi si può ricordare che, nel calendario della Repubblica di Venezia fino alla sua caduta, il ciclo dell’anno aveva inizio il 1° marzo, come nell’antico calendario romano che originariamente contava solo dieci mesi.
Ciò rendeva trasparente per es. come il conto di alcuni mesi fosse coerente rispetto alla loro denominazione: settembre (septem=sette + suffisso ber/brem=tempo), settimo arco di tempo, è il settimo mese a partire da marzo; ottobre (octo=otto + ber) l’ottavo; novembre (novem + ber) il nono; dicembre (decem + ber) il decimo, seguiti dai mesi di rinnovamento e morte, prima del nuovo inizio, Januarius (da Giano, il dio dai due volti, girati uno verso il futuro l’altro verso il passato, patrono delle porte e dei ponti, protettore di ogni forma di passaggio e di mutamento e propiziatore di ogni apertura e di ogni inizio) e Februarius, dal verbo februare=purificare, rimediare agli errori, in onore del dio estrusco Februus e della dea romana Febris (assimilata a Giunone stessa: Iuno Februa o Februata) invocata durante i Lupercali dell’ultimo mese dell’anno.
L'introduzione del calendario gregoriano (dal nome del papa Gregorio XIII, che lo introdusse il 4 ottobre 1582 con la bolla papale Inter gravissimas) [← it.wikipedia.org] non aveva stravolto l'uso ufficiale e il capodanno veneto, fissato il 1º marzo, rimaneva quindi una festività ufficiale della Serenissima Repubblica. Nelle date dei documenti si ovviava a possibili fraintendimenti affiancando la dicitura latina more veneto, ossia "secondo l'uso veneto". Una data generale come 27 febbraio 1720 corrispondeva al 27 febbraio 1719 more veneto, in quanto l'anno 1720 sarebbe iniziato in Veneto solo a partire dal mese seguente. Il 1° marzo 1720, invece, era tale sia secondo il calendario gregoriano sia more veneto.
A testimonianza dell'usanza resistono ancora tradizioni come il Bruza Marzo (o Bati Martho o Bati Marzo o ciamàr Marzo), che significa risvegliare l'anno nuovo, in alcune zone della pedemontana berica, dell'altopiano di Asiago e in varie feste locali del Trevigiano, del Padovano a Onara e del Bassanese. Non dissimile dagli appena trascorsi pan e vin dell'Epifania è l'accensione di falò per propiziare l'anno nuovo. Ha lo stesso significato il Fora Febraro a Valdagno nella valle dell'Agno in provincia di Vicenza (questo tuttavia anacronisticamente guastato con i "sciòchi col carburo", botti provocati dallo scoppio dell'acetilene, prodotto unendo il carburo di calcio con l'acqua: «i bimbi girano per le strade battendo su pentole e coperchi, o trascinando in bicicletta o a piedi delle lattine vuote (un tempo si usava trascinare la catena del camino, che così diventava lucida), con l'idea che il rumore scacci il freddo Febbraio». [← it.wikipedia.org]
Un’originale riprova di familiari formule beneauguranti per il nuovo anno è offerto dalle parole scambiate il 9 marzo 1510 nei pressi del "capitello della Madonna" a Motta (di Livenza) tra Giovanni Cigana e la misteriosa fanciulla (la Beata Vergine) in vesti candide e sfavillanti di cui ebbe visione, stando agli atti del processo canonico dell’epoca. L’uomo, per quanto sorpreso, le si avvicinò e la salutò familiarmente: «Dio ve dia el bon dì». Il suo saluto non solo venne ricambiato, ma la giovane aggiunse anche un cortese augurio di buon anno: «Bon dì e Bon Ano, homo da ben». Siamo a marzo, nello Stato veneziano, la Madonna parla in lingua veneta, lasciandocene un “autorevole” lacerto, e si ricorda di porgere all’anziano e devoto contadino gli auguri per l’anno nuovo da poco iniziato…
Questi auguri li rinnoviamo anche noi, a tutti gli homeni da ben. Un supplemento di auguri in giorni di quaresima e quarantene ...
[a. m.] L'eco della pietosa storia del cadetto ungherese Teodoro Kiss e di Caterina Vincenti si diffuse nei reggimenti austriaci di stanza allora nella Venezia, accompagnata da intensa commozione. Trovò spazio, non senza inesattezze ed enfatizzazioni, in giornali di Torino, Milano, Firenze. Sulle pagine della rivista fiorentina di ispirazione democratico-garibaldina La nuova Europa del 5 ottobre 1861, i lettori trovavano la seguente cronaca:
«A Oderzo, nel Veneto, è accaduto un fatto lagrimevole e straordinario. Un cadetto ungherese di buona famiglia s’innamorò perdutamente di una bellissima ragazza di quel paese, e ne fu da lei ricambiato. Però essendo ella onesta, non acconsentì mai ad avere secolui abboccamenti. Corrispondevano quindi per lettera. L’ultima scrittale dal giovane ungherese sempre più insisteva onde ottenere da lei un appuntamento. A questa ella rispose che due circostanze si opponevano assolutamente: l’esser ella ragazza onesta, ed egli ufficiale austriaco: che s’egli però dopo il ritrovo si sentisse la forza d'ucciderla, ella verrebbe la sera stessa al sito ch’egli le indicava. Ove egli non rispondesse a questa sua lettera, sarebbe segno del suo consentimento. L’amante non rispose, e il giorno dopo furono trovati annegati ambidue, abbracciati strettamente in un fiumicello vicino ad Oderzo. Sulla sponda l’ungherese aveva piantato la spada col fodero attraverso formante una croce, la quale era circondata da fiori. L’infelice ragazza fu ritrovata intatta».
Nel clima patriottico di recente unificazione italiana e di delusione per l'ancora irredenta Venezia, le nazionalità di appartenenza dei due giovani, accomunate dall'essere entrambe sotto il giogo dello stesso oppressore austriaco, si prestavano ad essere caricate di valori patriottici oltrepassando il puro significato di disperazione e impotenza a vivere la propria storia d'amore. Il poeta patriota piemontese, David Levi, la cantò subito in una romantica ballata intitolata Italia e Ungheria. Anche Raffaello Barbiera [← treccani.it/dizionariobiografico], a molti anni di distanza ancora non rinunciava - e siamo significativamente nel 1918 (Italiani e ungheresi... d'un giorno: gli amanti d'Oderzo, in Ricordi delle Terre Dolorose, Fratelli Treves Editori, Milano, 1918, pp. 13-25) - a risvegliare nel lettore, senza veri indizi fattuali, l'interrogativo che coniugava passione amorosa e patriottica: «Provava quell'ufficiale ungherese quei sentimenti di libertà che tanti suoi conterranei aggregati nell'esercito austriaco provavano, allora, mal soffrendo il giogo dell'Austria? Amava egli Caterina anco perché figlia d'un cospiratore, d'un nemico delle oppressioni austriache come lui?... Si pensi agli ufficiali ungheresi, che, a Milano, nella sommossa mazziniana del 6 febbraio 1853, s'erano uniti ai nostri cospiratori».
Fatto letterario quasi completamente ignorato è che il suicidio di questi amanti è stato fonte di immediata ispirazione anche per il giovane Giovanni Verga nel suo romanzo “veneto” Sulle lagune, ambientato proprio fra Venezia e Oderzo (terzo della sua prima trilogia di esordi narrativi, dopo Amore e Patria scritto fra i 16 e i 17 anni d’età, rimasto inedito, e I Carbonari della montagna, edito a spese della famiglia nel 1861-1862), pubblicato nel 1862-1863 nella rivista fiorentina La nuova Europa, la stessa rivista sopra citata dove era stato riferito e lo scrittore poté aver letto il «fatto lagrimevole e straordinario» accaduto a Oderzo, nel Veneto.
L'acme del romanzo verghiano è una variante del topos romantico “amore e morte”. I due giovani protagonisti, Giulia Collini, graziosa diciannovenne di Oderzo, e l’ufficiale Stefano De Keller, ungherese ma di sentimenti antiaustriaci, sfibrati dagli ostacoli frapposti al loro amore e convinti ormai dell’impossibilità di coronarlo, concordano un appuntamento notturno sulla laguna veneziana, col patto che egli avrebbe avuto alla fine il cuore di ucciderla. Dentro la gondola che fa da alcova, la passione degli amanti trova finalmente appagamento. Le acque sono increspate da un debole vento e rese scintillanti da una luna magnifica. «Il mare sembra gonfiarsi, come trepidando di un arcano e immenso palpito, e i raggi della luna tremolare più vividi per mischiarsi ai suoi vapori». Uno sposalizio panico e un eden sospirato celebrano anche il mare e la luna: «s’amano e son belli d’amore… anche noi ci abbracceremo come gli atomi di quelle acque e di quella luce … avremo con noi il paradiso!!...». Gli amanti si confessano di essere felici di morire insieme, per eternare il «dolce sogno» che hanno provato un istante. Scambiano l’ultimo bacio, sembrano resistere all’ultimo dubbio che potrebbe disarmare la loro forza di morire: «E se laggiù non fossimo insieme?... se ci separassero?». Giulia fa il balzo per precipitarsi fra le onde, ma - a sorpresa - Stefano spaventato l’afferra con forza convulsa e l’attira a sè. Con parole che suonano ora molto più prosaiche di quelle ebbre e ardenti fino a qualche momento prima pronunciate, invita Giulia a vivere: «È tanto bello l’amore!... e finché c’è vita c’è amore, finché si ama si spera!!». Anche in Giulia, «soffocata da singhiozzi d’amore e di giubilo», il delirio si sgonfia e, lanciatasi fra le braccia di Stefano, lo trascina sotto la felza, mentre la gondola solca le lagune verso Chioggia. Non si saprà più nulla di loro. Il narratore non conclude con la sicura morte. Tre finali evocati lasciano interrogativa la loro sorte: «Vi è chi dice che a notte inoltrata si era veduta una gondola, rimorchiata da quella dell’I.R. Polizia, approdare al Molo da dove i poliziotti avevano condotto in prigione altri sciagurati dei quali nemmeno dovea sapersi più il nome. Vi fu al contrario chi affermò di aver veduto la gondola, scampata miracolosamente per l’aiuto di un legno con bandiera italiana, approdare alla spiaggia libera di Ravenna. Altri infine dissero che i corpi dei due giovani erano stati rinvenuti in un fiumicello vicino ad Oderzo, e che la spada dell’uffiziale ungherese si era trovata sulla sponda, confitta in terra, con una corona di rose intrecciate all’elsa». Questo terzo epilogo è la citazione quasi alla lettera della cronaca giornalistica...
Per la breve riesposizione che segue ho consultato il testo di Raffaello Barbiera, già citato, che rappresenta - credo - la fonte usata da tutti coloro che ne hanno scritto successivamente e afferma di basarsi su documenti e dati ufficiali «favoritigli dal comm. Gasparinetti, già sindaco d'Oderzo, che aggiunse informazioni della propria consorte, cugina di Caterina Vincenti», e il testo di Ulderico Bernardi (L’amore vittima della politica, in Una Terra antica. Cultura storia e tradizioni dell’Opitergino, Editrice Santi Quaranta, Treviso, 2014, pp.176-181), che rinarra la vicenda, scevro della retorica patetico-patriottica del Barbiera. Inoltre Maria Teresa Tolotto, conservatrice degli archivi della parrocchia di Oderzo, mi ha permesso di visionare l'atto di morte (23 settembre 1861) di Caterina Vincenti e Teodoro Kiss, scritto personalmente dall'allora decano parroco del Duomo, monsignor Nardi, e mi ha chiarito altre informazioni di contesto sulle "famiglie" Vincenti e Fautario.
Il 12 settembre 1928 Italo Svevo, di ritorno a Trieste da un soggiorno termale a Bormio con la moglie e il nipote, restò vittima di un incidente stradale a Motta di Livenza, sulla via Postumia. L'indomani sopraggiunse la morte. Aveva 67 anni.
Clelia Caligiuri, nata a Sorrento nel 1904, si trasferì nel 1930 a Piavon di Oderzo per insegnare come maestra elementare. Dopo il 1943, conosciuta Sara Karliner, un’ebrea jugoslava scappata da Zagabria due anni prima, l'accolse dapprima nella propria casa di Piavon, poi, pur sicura che nessuno in paese l’avrebbe tradita, riuscì a trovarle un rifugio più sicuro presso la parrocchia di Lutrano, dove si distingueva per dare accoglienza a tanti perseguitati il pastore don Giovanni Casagrande. Sarina passò così gli ultimi tempi del conflitto in paese, visitata frequentemente da Clelia o dalla figlia, che fanno la spola da Piavon a Lutrano per portarle da mangiare.
Clelia Caligiuri, per aver aiutato un’ebrea durante la guerra, è diventata la prima donna italiana, e la prima persona residente in Veneto, a ricevere il titolo di “Giusto fra le Nazioni” il 18 ottobre 1966.
Fonte della foto: yadmedia.yadvashem.org
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