[a. m.] Nessuna nuova rivelazione, solo la possibilità di leggere alcuni solidi approfondimenti sull'italico ciao ormai affermato come amichevole espressione internazionale di saluto. Confidenziale non era invece all'origine. Deriva dall'antico uso veneziano di schiavo, sottinteso vostro, per salutare le persone di alto rango sociale con rispetto. Da "schiavo" (dal latino «sclavum», variante di «slavum» quando a essere ridotte in schiavitù erano le genti di provenienza slava) a "ciao" il passo è breve: → «s'ciavo» → «s'ciao» → «ciao». La formula «schiavo vostro» o «servo vostro», comune secoli fa, si ritrova, tra l’altro, nelle commedie di Goldoni (1707-1793) e nella formula germanica di cortesia "servus", che significa la stessa cosa. Del 1818 è la prima attestazione scritta di «ciau» (che naturalmente doveva esistere in forma orale già da un po') anche a Milano in una lettera del tragediografo cortonese Francesco Benedetti e «cordial ciavo» è testimoniato dalla scrittrice inglese Lady Sidney Morgan come saluto scambiato tra spettatori in un palco della Scala.
Ogni giorno, dunque, dalla mattina alla sera, noi anarchica razza italica non facciamo altro che dirci «sono il tuo schiavo»!
[a. m.] La chiocciola @ (detta anche “a commerciale”), segno caratteristico nei nostri indirizzi mail, ha origini molto più lontane di quanto possiamo immaginare.
Caduto quello d’occidente, l’impero romano d’oriente, rimasto ancora saldo, costituiva nell'alto medioevo uno spazio economico vitale per Venezia che andava acquisendo un ruolo sempre più importante nei commerci, tanto da poter stabilire essa delle unità di misura per rendere più equi possibili gli atti di compravendita. La "a" accentata (à), con l’accento man mano allungato fino alla forma che conosciamo oggi "@", simboleggiava graficamente l’anfora, che nei tempi antichi era utilizzata come unità di misura universale di peso o di capacità a seconda del contenuto in solidi o in liquidi. Il simbolo rimase in uso molto a lungo nei secoli. In tempi più vicini a noi non perse la sua valenza commerciale. Dopo l'impiego in una delle prime macchine per scrivere col significato di at a price of ("al prezzo di") e nella tastiera dei primi computer imitativa di quella della macchina per scrivere, trovò posto anche in quella dei dispositivi più moderni. Il trionfo della @ si ebbe a partire dal 1971 per la decisione dell'ingegnere statunitense Raymond Samuel “Ray” Tomlinson di Arpanet, creatrice della posta elettronica, di utilizzare la chiocciola con il significato di “A” (preposizione) per indicare il server a cui il messaggio doveva arrivare.
[a. m.] Ballottaggio … broglio … parole di derivazione veneziana, prese dalle procedure elettorali della Serenissima e dalle pratiche dei suoi soggetti politici.
La prima, ballottaggio, rimanda al sistema vigente a Venezia per l’elezione dei dogi e per la votazione delle leggi. Nel Maggior Consiglio (l’assemblea del patriziato) come in ogni altro organo costituzionale della Serenissima si votava con le balote (palline), lasciando cadere nell’urna una palla bianca se favorevoli, nera se contrari. Fatto il conteggio delle balote, si proclamava l’esito. Nelle elezioni ducali, le palle di pezza venivano estratte dall’urna da un ragazzino, scelto dal caso, detto “ballottino ducale”. L’urna e la pallina erano costruite in modo da garantire la segretezza del voto. L'urna era fatta in forma tale che per votare occorreva inserire entrambe le mani fino al polso da due aperture giustapposte. La balota, essendo di pezza, nel cadere non faceva alcun rumore e non permetteva perciò neppure di individuare gli astenuti che non ne deponevano né una bianca né una nera.
Tale tecnica di voto - durata senza sostanziali modifiche fino alla caduta della Repubblica – abbinata ad altre complicate modalità di designazione di cerchie più ristrette di elettori e di estrazione a sorte fino ai 41 “grandi elettori” finali del doge - era pensata per sconfiggere la corruzione. Tuttavia, col passare dei secoli e a causa delle trasformazioni interne al patriziato veneziano (a partire dalla "serrata" del Maggior Consiglio del 1297), non si mancò di escogitare svariati trucchi per aggirare il sistema e si diffuse la compravendita di voti tra patrizi: quelli delle circa 30 famiglie più ricche per garantirsi di ricoprire a rotazione le cariche più prestigiose e remunerative non esitavano a comprare i voti dei patrizi dei casati decaduti e impoveritisi, ma ancora detentori delle prerogative politiche nobiliari, i cosiddetti barnabotti (perché ridottisi ad abitare attorno alla zona di San Barnaba).
Il termine “broglio" elettorale” nasce da questo neanche troppo nascosto “mercato dei voti”, dalla particolarità che avveniva non nell’aula del Maggior Consiglio, all’interno della quale era imposto il silenzio, ma nel cortile di Palazzo Ducale a cui era rimasto il nome primitivo (quando era un prato, un orto) di “brolo”, “brojo” o “broglio” in veneziano…
[a. m] Moèca è chiamato dai veneziani il granchio verde locale, granzo comune o granchio ripario (carcinus aestuarii), nella fase culminante della muta nei mesi primaverili (aprile e maggio) e autunnali (ottobre e novembre), quando perde il suo esoscheletro o carapace diventando molle e tenero, prima che si ricostruisca il duro rivestimento esterno in poche ore a contatto con l’acqua salmastra o salata.
Sia le moéche tenere e molli sia le masanete o masenete (le femmine della stessa specie, provviste di guscio, consumate alla fine dell'estate, quando sono piene di uova, cosiddette masanete col coral) sono diventate una prelibatezza culinaria. Erano cibo dei poveri, raccolte e consumate soprattutto in tempi di difficoltà economiche, facili da reperire, e spettava alle donne il compito di recarsi in campagna per scambiare questo prodotto con della farina di granoturco. | chioggiapesca.it
La tradizione è antica. «Mi vegno da Treporti, dove se descortega i granzi», diceva di sè il commediografo cinquecentesco Andrea Calmo e nel 1729 l’abate Giuseppe Olivi annotava tra le pagine della sua "Zoologia Adriatica": «I granchi per acquistare il loro accrescimento cambiano ogn’anno crosta. Nei momenti che precedono la muta i nostri pescatori li raccolgono e radunabili in carnieri tessuti di vinchi, volgarmente viero, li collocano a mezz’acqua nei canali. La nuova situazione non impedisce loro di svestirsi: essi perdono la vecchia crosta, e compariscono coperti dalla nuova, ancor molle e membranosa: in tale stato chiamati Mollecche, salgono anche alle mense più nobili». L'arte preservata per secoli dai pescatori di Chioggia viene svelata nel secondo dopoguerra alle famiglie nobili della Giudecca, per poi diffondersi in tutto il versante nord della laguna.
Il Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio (1829) così definiva granzo, moèca e masaneta: «GRANZO (colla z aspra) s. m. Granchio, Voce con cui nel nostro dialetto s'intende alcune specie soltanto di Granchi di mаге. | Per Granzo, intendono i Pescatori una specie di Granchio marino a coda torta, conosciuto da Linneo col поmе Cancer moenas. Con questo termine vernacolo s'intende tanto il maschio quanto la femmina, ma più frequentemente il maschio solo, dandosi alla femmina di questa specie il nome di Masanéta. Oltre al servire di cibo, in alcune stagioni cangiano di scorza, ed allora si chiamano vulgarmente Moléche da Molegato cioè Molliccio o Molle» ← Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Coi tipi di Andrea Santini e figlio, Venezia, 1829, pag. 239 | books.google.it/5vEGAAAAQAAJ | Leggi pdf
Più difficile da spiegare è il termine moèca associato all’effigie del leone di San Marco alato, simbolo della città, che sorge dalle acque. Secondo la tradizione popolare, il leone, accovacciato e posizionato frontalmente con le ali spiegate a ventaglio, assume un aspetto simile al granchio adulto con le chele aperte e il libro tenuto tra le zampe anteriori ricorda sempre il granchio che durante la ricerca di cibo, se non riesce a trovarlo, rivolge l’attenzione ai suoi simili più giovani e li blocca tra le chele attendendo la fase di muta quando sono più teneri e facili da mangiare...
Ulderico Bernardi, Comandi! Vècio parlar de sinistra Piave, De Bastiani Editore, Vittorio Veneto, 2016
Anche le parole un giorno se ne andranno all'Aldilà. Chi le ha ascoltate, imparate, scambiate e conservate per quanto è lunga la vita non le perderà mai.
Con questa frase comincia il libro, che non è solo un elenco di termini ormai tramontati, ma propone tanti puntelli di memoria utili per far riaffiorare alla mente quel mondo che, più o meno cinquant'anni fa, era parte essenziale della quotidianità nei nostri paesi in riva sinistra della Piave.
Così si parlava in casa, tra le bancarelle del mercato, sui campi di gioco e nelle riunioni festose. Talvolta, questa lingua tronca, erede di storie secolari condivise nelle generazioni, conosceva accenti differenti, e sfumature di diversità che facevano subito riconoscere l'interlocutore secondo la sua provenienza e lo status sociale.
Ne è venuto un lungo elenco ragionato di parole ormai da tempo uscite dall'uso, suddivise in capitoli che vanno da A come Angìn e Angina, fino a V come Voltèjo, escludendo le iniziali estranee come la Z, l'H e la Q, che invece si sdoppiano in S e X necessarie per la pronuncia della Esse dura e dolce.
Sono passate stagioni su stagioni, il vècio parlàr ha conosciuto mutamenti che hanno dell'incredibile. Tanti uomini e donne hanno scordato parole antiche e appreso termini forèsti. In qualche caso introdotti per pura vanità. Forse queste voci arcaiche sapranno ancora emozionare e far sorridere, almeno si spera. | ← uldericobernardi.it
La mascolinizzazione del Piave servì simbolicamente ad esaltare l'arresto dell'invasione austro-ungarica nel 1917 dopo Caporetto, ma maschio lo avevano già fatto anche gli austriaci quando avevano dominato il Lombardo-Veneto.
[Massimo Fanfani, Fiumi femminili, fiumi maschili | Accademia della Crusca | accademiadellacrusca.it]
[...] «Originariamente il Piave, come diversi altri fiumi del Veneto o del Trentino (Brenta, Livenza, Sarca, Sonna, ecc.), era di genere femminile. Così risultava nel dialetto (la Piau nel sec. XVIII a Belluno, la Plaf a Vittorio Veneto) e localmente: ancor oggi ce ne possiamo render conto da almeno un paio di “relitti” toponomastici: la Piave vecchia (antico alveo e località alla foce del fiume), la Piavesella di Nervesa (canale scolmatore). Il femminile era largamente attestato anche nella lingua, in scritti letterari o meno, opera di veneti e di non veneti, dal Medioevo fino ai primi del Novecento. Ad esempio, il nome Piave ricorre come femminile nella Cronica dei Villani, nel Dittamondo, nelle Rime del Sacchetti, in Guicciardini (che usa la variante in –a: «fiume della Piava»), Garzoni, Da Ponte; va detto però che le occorrenze più recenti sono solo letterarie, come quella nella Nave (1908) di Gabriele d’Annunzio: «La Piave e la Livenza coprono tutti i pascoli». Anche Dante usa Piava, ma il genere è indeterminabile e la terminazione in –a forse condizionata dalla rima: «In quella parte de la terra prava | italica che siede tra Rialto | e le fontane di Brenta e di Piava» (Paradiso, IX, 25-27). La forma Piava è comunque attestata anticamente in documenti veneti, fin dalla cronaca trecentesca del doge Andrea Dandolo, dove si tratta delle concessioni di Liutprando al doge Paoluccio: «a Plava maiore usque in Plavam siccam sive Plavixellam».
Dall’inizio del Settecento, tuttavia, non erano mancati degli sporadici impieghi maschili (prevalentemente di scriventi non veneti), impieghi che si erano infittiti assai, fino a diventare pressoché esclusivi, nella seconda metà dell’Ottocento, e questa volta nello stesso Veneto, specialmente negli scritti di studiosi, geografi, ingegneri che si occupavano del fiume; ma anche, e diffusamente, nella lingua comune: ricordo che nel 1867 un settimanale di Belluno si intitolava Il Piave; e che la Gazzetta di Conegliano (1868-1880) riportava nel sottotitolo: Organo del Comizio agrario e degli interessi della sponda sinistra del Piave. Non stupisce, quindi, che compaia il maschile nell’ode Cadore che Giosuè Carducci scrisse «In piazza di Pieve del Cadore | e sul Lago di Misurina | sett. 1892» e che fu raccolta in Rime e ritmi: «Pieve che allegra siede tra’ colli arridenti e del Piave / ode basso lo strepito, / Auronzo bella al piano stendentesi lunga tra l’acque / sotto la fósca Ajàrnola».
Il diffondersi generalizzato del maschile non era altro, come abbiamo visto, che una conseguenza della modernità: la scolarizzazione che tendeva a promuovere la norma dei grammatici e il progresso tecnico-scientifico e commerciale che esigeva uniformità terminologica e precisione nelle denominazioni: anche i nomi geografici andavano normalizzati, e dunque per le persone acculturate i fiumi eran tutti maschili, tanto che la sorte toccata al Piave fu riservata, per restare nella regione, anche a Brenta, Livenza e Sarca, nomi che non furono protetti nemmeno dalla loro terminazione in –a. Così gli stessi veneti, che magari in dialetto continuavano a usare il femminile parlando di tali fiumi, quando prendevano la penna e si accostavano all’italiano, passavano al maschile.
Per il Piave, tuttavia, il definitivo mutamento di genere, avvenuto in modo lento e inavvertito nel corso dell’Ottocento, certo attraverso una fase in cui i due diversi usi convivevano – l’uno abbarbicato sempre più debolmente nel dialetto, l’altro sempre più propagginato nella lingua –, fu turbato da un improvviso dietrofront, quando, durante la Grande Guerra, fra il 1917 e il 1918, il nome del fiume balzò per un anno intero nei titoli dei giornali, trasfigurandosi subito in qualcosa di simbolico e di leggendario... | LEGGI TUTTO
[a. m.] Su ombra, questo curioso modo prettamente veneto di chiamare un “bicchiere di vino”, circolano molte paretimologie, cioè “etimologie popolari”, ossia ricostruzioni fantasiose, anche se spesso attraenti, dell’origine della parola.
Una delle più diffuse e accattivanti chiama in causa le mescite di vino all’aperto nel luogo simbolo di Venezia, Piazza San Marco, secondo più varianti: che i tavoli all’aperto delle osterie venissero spostati seguendo l’ombra del campanile man mano che si spostava il sole; oppure che ad essere spostate fossero le bancarelle che vendevano vino e avevano la necessità di mantenerlo fresco; o ancora che a spostarsi seguendo l’ombra fossero gli avventori. Presto, bere "all’ombra” avrebbe generato “bere un’ombra” e il bicchiere di vino (da un decimo di litro, la quantità che viene servita in osteria) sarebbe rimasto così per sempre l’ombra o - con altra piacevolissima sfumatura - ombretta.
In effetti, diverse stampe e dipinti antichi mostrano che in passato la piazza era gremita di moltissime bancarelle, solitamente disposte attorno alla base del campanile di San Marco: rigattieri, panettieri, spezieri, mescite di vino, ecc., ma di questa specifica usanza dei mescitori non esiste nessuna documentazione, neanche un'ombra ... potremmo dire.
Per spiegare ombra bisogna ricorrere a una base più semplice, magari più banale, scevra di svolazzi aneddotici, come è indicato sinteticamente da Manlio Cortelazzo e Carla Marcato nel Dizionario etimologico dei dialetti italiani, Torino, UTET Libreria, 2005: un’ombra de vin significa “una piccola quantità di vino”, di solito - possiamo aggiungere - quella che sta in un bicchiere da un ottavo o un decimo di litro. Il passaggio semantico è lo stesso che troviamo nelle ricette, quando è scritto «aggiungere un po’ di burro e un’ombra di sale e pepe», oppure «fate asciugare in padella con un’ombra di burro».
[a. m.] In Veneto, i due modi più usati per dire soldi erano, negli ultimi secoli, schei e franchi. Dal 2002 l’euro ha pensionato la “lira” ma anche il “franco”, sempre stato in assoluta parità monetaria con la lira: 100 o 1000 franchi erano 100 o 1000 lire, in ogni caso. Oggi non si sente dire quasi più. Ma rimane per es. “aver(ghe) un franco” per chi ha ancora dei soldi…
“I schei” invece hanno resistito, perché designano i soldi in senso generale, non una particolare moneta o somma di denaro: che siano lire, euro o dollari, schei sono e schei restano!
Dobbiamo entrambi questi termini alle monete introdotte durante la dominazione austriaca del Veneto (1815-1866), in conseguenza però non della pronuncia in tedesco della loro denominazione, ma della pronuncia in veneto delle scritte incise su di esse.
Franco è stato ricavato da FRANC, abbreviazione di Franciscus, nell’espressione FRANC. IOS. I. D. G. AUSTRIAE IMPERATOR (Franciscus Joseph I, Dei Gratia Austriae Imperator = Francesco Giuseppe I, per grazia di Dio Imperatore d’Austria), incisa sulla moneta austriaca. La popolazione locale, piuttosto pratica, usando solo la prima parola della scritta, venetizzò la moneta chiamandola “el franco” e “i franchi”, come sinonimo di soldi più in generale. Meno convincente è l’ipotesi che il termine franchi, per indicare i soldi, sia un lascito della dominazione francese in Veneto in età napoleonica, dopo la caduta della Serenissima, durata per un quindicennio ma molto più breve della successiva asburgica.
![]() ![]() 1/2 THALER - FRANC IOS I DG AVSTRIAE IMPERATOR [1856] |
![]() ![]() 1/4 FLORIN - FRANC IOS I DG AVSTRIAE IMPERATOR [1858] |
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![]() ![]() 2 FLORIN - FRANC IOS I DG AVSTRIAE IMPERATOR [1859] |
![]() ![]() 1 FLORIN - FRANC IOS I DG AVSTRIAE IMPERATOR [1866] |
Originale è anche il meccanismo di introduzione della parola schei nella lingua veneta. Nel Lombardo-Veneto sotto il dominio austriaco circolavano ovviamente monete emesse in lingua tedesca, Kronen, Kreuzer e Pfenning (i centesimi di queste valute), sull’esergo delle quali compariva al dritto la scritta SCHEIDEMÜNZE K.K. OESTERREICHISCHE, moneta divisionale (cioè spicciola) dell’Imperial-Regio Governo austriaco, e al rovescio l’indicazione di valore, data e luogo di conio [1].
Anche in questo caso, la prima parte della parola SCHEI [DEMÜNZE] pronunciata com’era scritta “schèi” (la pronuncia tedesca corretta sarebbe stata “sciai”) ingenerò il termine adoperato dalla popolazione veneta per designare da allora in poi “soldi”.
![]() ![]() 6 KREUZER 1849 SCHEIDEMÜNZE - A (Zecca di Vienna) |
![]() ¼ KREUZER 1851 SCHEIDEMÜNZE - A (Zecca di Vienna) |
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![]() 1 KREUZER 1851 SCHEIDEMÜNZE - V (Zecca di Vienna) |
![]() 1 KREUZER 1858 SCHEIDEMÜNZE - M (Zecca di Milano) |
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![]() 5 KREUZER 1859 SCHEIDEMÜNZE FRANZ JOSEPH I KAISER ÖSTERREICH - V (Zecca di Venezia) |
![]() 10 KREUZER 1861 SCHEIDEMÜNZE FRANZ JOSEPH I KAISER ÖSTERREICH - V (Zecca di Venezia) |
Trattandosi di monetine, la loro dimensione venne accostata a quella del centimetro e la gente foggiò anche la forma singolare scheo per significare sia una singola moneta, sia una misura di circa 1 centimetro (soprattutto quando viene presa ad occhio e non con un metro), sia semplicemente qualcosa di piccole dimensioni: ancora oggi si sente dire ghe manca un scheo per «ci manca un centimetro», gh’è ancora 30 schei de largo per «c'è ancora uno spazio di 30 centimentri», l'è alt un scheo per «è molto basso di statura» ...
Per noi, un originale fatto linguistico. Per chi crede, un'apparizione miracolosa. Le parole scambiate il 9 marzo 1510 nei pressi del "capitello della Madonna" a Motta tra Giovanni Cigana (Dio ve dia el bon dì) e la misteriosa fanciulla (la Beata Vergine) in vesti candide e sfavillanti di cui ebbe visione (Bon dì e Bon Ano, homo da ben) rappresentano una preziosa testimonianza della lingua allora parlata. Lo evidenzia Davide Guiotto nel blog "Veneti" ospitato nel "Mattino di Padova".
Per chi non lo sapesse, durante il lungo periodo di prosperità della Repubblica Serenissima, il capodanno si celebrava il 1° di marzo, una consuetudine rimasta in vita fino all'invasione francese della terra veneta nel 1797 e tornata a rivivere oggi, in Veneto, grazie alla passione e all'impegno di molte associazioni culturali.
Una delle più significative testimonianze del Capodanno Veneto ci arriva non da qualche storico o amante della cultura veneta, ma da documenti ecclesiastici, narranti la vicenda accaduta al trevigiano Giovanni Cigana. Giovanni era un contadino della Marca Trevigiana, più precisamente di Motta di Livenza, e la vicenda di cui parliamo accadde il 9 marzo 1510. Uomo stimato e ben conosciuto nella zona, Giovanni all'epoca aveva 79 anni, "forte e robusto, padre di sei figli, cristiano tutto d'un pezzo" come lo ricordano le cronache del tempo.
Quella mattina Giovanni si era fermato come di consuetudine a pregare nei pressi del "capitello della Madonna" - così chiamato dalla popolazione locale - benché avesse una gran fretta: doveva recarsi infatti a Redivole, per chiedere ad un suo conoscente, tale Luigi Facchini, di venire ad arare e seminare legumi in un suo terreno. Finite le preghiere, Giovanni si alzò e si girò per proseguire il suo cammino.
Ma... meraviglia! Vicino alla strada vide una giovane di circa dodici anni, seduta a terra e con le mani sopra le ginocchia. Indossava vesti candide e sfavillanti - come ricordò Giovanni - anche il volto era candido e roseo.
Davanti a questa visione Giovanni non si scompose, anzi si avvicinò e salutò la giovane nella nostra lingua: Dio ve dia el bon dì. La misteriosa fanciulla rispose al saluto anch'ella in veneto: Bon dì e Bon Ano, homo da ben.
A quel tempo Motta faceva parte della Repubblica Veneta e l'anno nuovo era iniziato da pochi giorni.
Il colloquio fra i due assunse toni sempre più familiari, fino a quando Giovanni si accorse che era al cospetto della Beata Vergine e, preso da profonda venerazione, si gettò in ginocchio davanti a Lei.
Dopo appena due mesi fu istituito il processo canonico che verificò l'autenticità della visione. In seguito all'episodio, quella fanciulla divenne la Madonna dei Miracoli e sul luogo dell'apparizione fu eretto un santuario, ancor'oggi visitabile.
L'apparizione del 9 marzo 1510 non fu solo un evento di grande importanza da un punto di vista religioso, ma anche una preziosa testimonianza di cultura e identità veneta.
A proposito, fra qualche giorno sarà il 1° Marzo 2012... a tutti "Bon dì e Bon Ano"!
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