In Campo San Polo Venezia, 1958 | Fonte della foto: live.comune.venezia.it/giochi-perduti
[1874] Giuochi popolari veneziani raccolti e descritti da Domenico Giuseppe Bernoni, Tipografia Melchiorre Fontana, Venezia, 1874 | ia800206.us.archive.org | Leggi pdf
La Piereta | «Questo giuoco si fa per lo più da ragazze. Una di loro nasconde una pietruzza che dalle compagne, le quali frattanto se ne devono star ritirate, dev’essere ritrovata. Al grido del chichirichì, esse escono da dove sono, e tosto si pongono sulle traccie dell’oggetto nascosto. Dalle parole poi di aqua, fogheto, fogo, fogon, che son ripetute da chi nascose la pietruzza, a seconda che le compagne vi stanno lungi, o più appresso, o ancor più vicino, o accosto, esse hanno una direzione sicura per poter riescire nell'intento cui mirano. Scoperta la piereta, si ripiglia il giuoco, restando a nasconderla la ragazza che l’ebbe trovata.
Giochi perduti, 24/11/2016 | live.comune.venezia.it/giochi-perduti
Fonte della foto: ilbacodaseta.org
Nel sito dell'associazione no-profit Arzanà (nome antico dell’Arsenale di stato Veneziano tramandato da Dante nella Divina Commedia), finalizzata allo studio, al restauro e alla conservazione delle imbarcazioni tradizionali della laguna di Venezia, una sezione è dedicata a ricordare ed illustrare una serie di antichi giochi popolari: Giochi da campo (taluni crudeli e cruenti), Regate e Naumachie (combattimenti navali), Forze d'Ercole (piramidi umane), Tauromachie (caccia ai tori), Sfide sui Ponti dei Pugni ... Non pura rassegna di curiosità, ma anche pretesto per rimeditare sull'uso "politico" di questi giochi, attraverso i secoli: disciplinati e incoraggiati dalla Repubblica (che li equiparava quasi ad addestramenti bellici); utili a mantenere - sotto l'apparenza ufficiale di gioco - la popolazione divisa, per minimizzare il rischio di sommosse popolari; a volte promossi e fatti allestire a divertimento di personalità straniere in visita.
Joseph Heintz il Giovane, Competizione al ponte dei pugni a Venezia, 1673 | Fonte: it.wikipedia.org/wiki
Per esempio le sfide di pugni sui ponti (non solo sul Rio di San Barnaba, divenuto il più celebre, ma anche su altri ponti) erano fra i giochi più violenti, di origini antichissime e basate sulla rivalità tra due fazioni popolari, i Castellani (in riferimento alla Basilica di San Pietro in Castello, abitanti della zona est della città e principalmente operai) e i Nicolotti, (in riferimento alla Chiesa di San Nicolò dei Mendicoli, abitanti della zona ovest, principalmente pescatori). Potevano durare tutta la notte e trasformarsi in zuffe forsennate con morti e feriti; i combattenti, precipitando in acqua, se ancora vivi e non troppo tramortiti, risalivano sul ponte a malmenarsi con più furore di prima. Nelle epoche più remote le squadre si affrontavano addirittura con bastoni, uso via via diradatosi e definitivamente proibito nel tardo Cinquecento, a favore dei pugni. Il Consiglio dei Dieci vietò le battaglie sui ponti solo con un decreto settecentesco, dopo una sanguinosa lotta partita con i pugni ma arrivata a coltelli e sassi, sostituendole con altri esercizi, quali regate o piramidi umane.
Altre letture
Quest'anno la santa Candelora fa l'enigmista e combina una data palindroma, che non cambia cioè se viene letta da sinistra a destra o viceversa: 02.02.2020. È palindroma sia per noi, sia per chi utilizza notazioni differenti, come gli anglosassoni che all'anno fanno seguire il mese e il giorno: anche a New York il «palindrome day» sarà 2020.02.02. La precedente data palindroma mondiale fu l'11 novembre 1111 (11.11.1111) in pieno Medioevo; la prossima sarà il 12 dicembre 2121 (12.12.2121).
La ricorrenza cristiana popolarmente chiamata Candelora è celebrata il 2 febbraio, essendo stata istituita come festa della Presentazione di Gesù al Tempio e della Purificazione della Vergine Maria. Secondo il Levitico biblico (12, 2-4), una donna dopo il parto di un maschio era ritenuta impura del sangue mestruale per un periodo di quaranta giorni e doveva andare al Tempio per purificarsi. I 40 giorni dopo il 25 dicembre, parto di Gesù, cadono appunto il 2 febbraio. Prende il nome di Candelora (di probabile derivazione latina: candelorum o festum candelarum) dal rito di benedizione delle candele, simbolo di Cristo (appellato «luce per illuminare le genti» da Simeone al momento della presentazione al Tempio), portate dai fedeli, da conservare poi in casa e accendere per scongiurare calamità e tempeste.
Fonte della foto: cappellascrovegni.comune.padova.it
Nella ricorrenza cristianizzata, collocata a mezzo inverno nel tempo astronomico, si riconosce l'apparentamento con alcune celebrazioni legate al ritorno della luce in alcune tradizioni religiose pre-cristiane, nella fase dell’anno in cui, sebbene l’inverno risulti ancora climaticamente rigido, la luce manifestata con il solstizio d’inverno inizia a essere percepita in modo più chiaro. Esempi ne sono la festa celtica di Imbolc (1° febbraio, nel punto mediano tra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera) e, nel mondo romano, le feste della Dea Februa (Iunio Februata = Giunone purificata) e gli antichi Lupercali rispettivamente l'una alle calende di febbraio (il 1°) e gli altri alle idi di febbraio (il 15), ultimo mese dell'anno per i romani.
Imbolc (da imbolg = nel grembo) era sotto gli auspici della dea Brigit (o Brighid, da breo, fuoco), divinità del fuoco, della tradizione e della guarigione, e contemplava l'accensione di fuochi e falò rituali che simboleggiavano la luce e al tempo stesso la richiamavano. Brigit fu sostituita, con l'avvento dell'era cristiana, da santa Brigida, considerata evangelizzatrice d'Irlanda, a cui vengono attribuite molte caratteristiche dell'antica divinità.
Una ricodificazione cristiana è attestata anche per l'antica festa dei Lupercali (← it.wikipedia.org | treccani.it) che combinava riti di fertilità e purificazione/propiziazione, tenacemente durata lungo i secoli fino all'Alto Medioevo. A papa Gelasio (492-496) si attribuisce la proibizione ai fedeli di partecipare in qualsiasi modo alla cerimonia, mentre non è provato che a lui sia riconducibile anche la sostituzione della festa della Purificazione di Maria a quella dei Lupercali - da celebrare proprio attorno alle idi di febbraio, cioè 40 giorni dopo l'Epifania, che è il Natale degli Orientali, com'era in uso a Gerusalemme già alla fine del IV secolo, con il nome di Quaresima dopo l'Efifania il 14 febbraio - perché si ha menzione della Candelora cristiana in Roma solo nel sec. VII. Quando la festa cristiana prevarrà, le antiche fiaccolate rituali che accompagnavano i Lupercali cedono all'uso delle candele: «incenduntur omnes candelae et cerei et fit lumen infinitum», si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima (Peregrinatio Aetheriae, 24, 4).
Ancora nel “Lunario Toscano” dell’anno 1805 si legge: «La mattina si fa la benedizione delle candele, che si distribuiscono ai fedeli, la qual funzione fu istituita dalla Chiesa per togliere un antico costume dei gentili [i gentili erano i pagani, ndr] che in questo giorno in onore della falsa dea Februa con fiaccole accese andavano scorrendo per le città, mutando quella superstizione in religione e pietà cristiana».
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Fonte della foto: trevisotoday
[Silvia Parcianello] ... La tradizione più dolce della notte dell’Epifania è quella della pinza. In queste terre contadine il panevin era legato a doppio filo alla pinza, un dolce semplice, preparato con farina di frumento e di mais, a volte con polenta e addolcito da frutta secca e zucchero. La pinza era il dolce che veniva mangiato a Natale prima dell’avvento del panettone, era quel “pane dolce” arricchito che nell’antica Roma si mangiava il 25 dicembre durante la festa del sol invictus e che ogni regione italiana ha oggi nel suo bagaglio di tradizioni gstronomiche: pensiamo al panforte, al panpepato, al panspeziale, ai più moderni panettone e pandoro.
Per far festa seriamente è raccomandato mangiare sette pinze diverse. L’usanza dei sette tipi di pinza risale a quando i panevin si facevano in ogni casa contadina e i ragazzi ancora celibi andavano a “chiamare il panevin”, cioè ad assistere al fuoco e invocare i cori, in sette case diverse, mangiando in ciascuna una fetta di pinza con le persone di quella famiglia. In questo modo gli scapoli avrebbero avuto occasione di incontrare una giovane fanciulla da sposare... → Leggi tutto: Silvia Parcianello, Dolce per l’Epifania: Pinza alla zucca, ma le versioni sono sette e più | wining.it
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Panevin anni Sessanta | Fonte della foto: raixevenete.com
Ulderico Bernardi, Il panevìn | raixevenete.com
«È un rogo che si accende la vigilia della festa di Epifania: una catasta che era di canne e di sterpi nei tempi della parsimonia, e che ora si accresce delle ormai inutili fascine della potatura. Il culto del fuoco è immemorabile, per il valore spirituale della luce, che disperde la buia angoscia. Il fuoco assume il significato cosmico della divinità, invocata a scacciare le tenebre col suo fulgore, a umiliare il freddo col suo calore, a evocare l’eterno nel momento cruciale dell’anno che si spegne. Nel “Panevin” che raduna le genti al’imbrunire della giornata invernale, c’è tutto questo: celebrazione del Solstizio d’inverno, memoria dell’origine, conferma della continuità. Un rito di speranza, con una liturgia fatta di specchianti riferimenti simbolici: la pira è sovrastata dal fantoccio di una megera, grifagno simulacro della miseria; intorno al fuoco si danza in tondo, mescolando le generazioni, e si sa che il cerchio richiama il cielo, e il fuoco al centro l’origine; mentre la fiamma divampa e le faville prendono il vento, i vecchi strologano sui raccolti a venire, che saranno abbondanti se le monachine vanno a occidente o grami se marciano verso l’aurora. La festa comporta il tripudio, la bevuta, la mangiata, le urla (‘e ucàde), le fucilate dirette alla “vècia”, i salti in aria. [...] Un pane speciale, spartito fra i festanti, ha il compito di dare sostanza di comunione al mangiare insieme. Si tratta della “pinza”, un tempo dolce povero, cotto sotto la cenere calda del focolare, arricchito da modesti ingredienti; uva passa, fichi secchi, mescolati alla farina di mais, quasi una trasfigurazione della polenta quotidiana [...] La tradizione vuole che ciascuno ne consumi di sette qualità diverse: sette pinze in altrettante case amiche» → Leggi tutto
[a. m.] La lettura del simpatico racconto fatto dai ragazzi di via Roma e del Salacè, ora nonni, autori nel 1958 del primo Panevin della piazza di Oderzo, lascia trasparire con candida evidenza il problema del rapporto fra i "genuini" falò della tradizione contadina e la «rinnovata tradizione» pubblica dei panevìn, su piazze e sopra fiumi, ad opera di amministrazioni e pro loco...
Il primo Panevin sul Salacè («Il Dialogo», 2, Febbraio 2018, p. 12)
«C’era una volta … un gruppo di ragazzi che nel 1958 realizzò il primo Panevin della piazza.
Si avvicinavano le feste natalizie, noi ragazzi di via Roma e di vicolo Salacè eravamo elettrizzati per l’imminente arrivo del Natale e, nel clima di attesa, pensammo a cosa avremmo potuto fare noi per dare più magia a quei giorni. Abbiamo deciso di allestire, per gli abitanti della piazza, il Panevin nel Salacè, che allora era la discarica di Oderzo. Lo abbiamo fatto nel luogo dove ora sorge il monumento.
Al mattino eravamo tutti a scuola e, nel pomeriggio, tutti nei campi e lungo i fossi per raccogliere sterpi e legnetti. Le famiglie Zaghis ci prestarono la carriola e contribuirono regalandoci tralci secchi delle potature delle viti, fascine e “manuini de canne”. Quindi, arrivati alla quantità di materiali necessaria, abbiamo allestito il Panevin.
Intanto la voce si era sparsa, e tutti gli abitanti della piazza erano in attesa dell’evento, anche per ritrovarsi insieme a cantare i classici canti del repertorio popolare e per dedurre, in base alla direzione che avrebbero preso le faville, come sarebbe stato l’anno appena iniziato. La tradizione dice che “se e faive le va a sera, poenta a pien caldiera. Se le va a mattina, ciol su el sac e va a farina”.
Nella prospettiva di una grande affluenza, a noi ragazzi sarebbe piaciuto poter offrire pinza e vin. Ma eravamo senza soldi per poter fare gli acquisti; allora abbiamo chiesto aiuto al signor Arturo Simonetti che ci regalò mille lire per comprare la pinza al panificio Martin. Il problema del vino fu risolto grazie alle donazioni di molte bottiglie, fatte dagli agricoltori di via Masotti e dalla Cantina sociale di Oderzo.
Arrivò la sera dell’Epifania e … il primo Panevin di piazzale Europa fu veramente un successo, così grande che si pensò di ripeterlo. L’anno dopo arrivò anche la Rai, con la nostra grande sorpresa, per effettuare le riprese, ed il sociologo Ulderico Bernardi tenne un bellissimo discorso sulla antichissima tradizione.
L’Amministrazione comunale proseguì l’iniziativa negli anni successivi, allestendo il Panevin sempre nello stesso posto, diventato piazzale Europa.
Nel 2001, con l’amministrazione Covre, l’assessore Francesca Scala diede grande impulso alla rinnovata tradizione, facendo allestire il Panevin sull’acqua del Monticano, facendolo accendere dai sommozzatori del Poseidon club e organizzando anche lo spettacolo pirotecnico. La tradizione continua tuttora, richiamando a Oderzo migliaia di persone. Quest’anno, il nostro Panevin ha compiuto 60 anni e, per la prossima Epifania, sarebbe bello festeggiare l’evento» ...
Con chi? si chiede ansioso il lettore ... «insieme al Presidente Zaia», concludono festosi i ragazzi del 1958, ora nonni.
Sommario:
31.10.2019 | In Friuli e Veneto (ma anche in molte altre regioni) era diffusa la tradizione di intagliare zucche con fattezze di teschio e la credenza che nella notte dei morti (all hallow even = la sera di tutte le anime) questi potessero uscire dalle tombe, muoversi in processione, irretire i bambini, ed infine che gli animali nelle stalle potessero parlare. Sempre in Friuli era diffusa una tradizione simile a quella del "dolcetto o scherzetto", ma applicata nelle festività natalizie o carnevalesche, feste che hanno pure origine come riti di passaggio d'anno.
Altre letture
Il libro da leggere: Eraldo Baldini, Giuseppe Bellosi, Halloween. Nei giorni che i morti ritornano.Tutte le sorprese di una festa più antica e italiana di quanto pensiate, Einaudi, Torino 2006 | Reperibilità: einaudi.it/halloween
[a. m.] La festa di Halloween, affermatasi inarrestabilmente anche in Italia, sembra diventata uno degli appuntamenti più sentiti e attesi dell’anno. Bambini mascherati che girano per le case a gridare il loro «dolcetto o scherzetto?», feste a tema nei centri piccoli e grandi e nei locali pubblici, zucche intagliate … Questo horror da baraccone diverte e coinvolge molti, ma inorridisce altrettanti per l’assurdità di una festa “importata” estranea alle nostre tradizioni, frutto solo di imitazione e generatrice di consumismo.
Come stanno veramente le cose? Che cos’era la festa di Halloween prima dell’attuale “Halloween” veicolata dalle suggestioni cinematografiche, televisive e letterarie provenienti da oltreoceano? Si tratta di moda importata, o di una tradizione millenaria?
La piú nuova delle feste non ha affatto, in verità, un cuore “americano”. Viene dall'Italia, e dall’Europa, dei tempi piú profondi. Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi, due studiosi di folklore e antropologia culturale (il primo anche affermato romanziere) conducono attraverso un viaggio suggestivo e colto, approfondito regione per regione, nel folklore, e nel mare di racconti terrificanti, da cui nasce Halloween. Nei giorni che vanno dalla vigilia di Ognissanti (31 ottobre) a San Martino (11 novembre) sono da sempre presenti, o almeno lo erano fino a pochi decenni fa, molti degli elementi costitutivi della festa, improntata sulla celebrazione di un “ritorno dei morti”. Dalle Alpi alla Sicilia troviamo (o trovavamo) in abbondanza, in quelle date, riti di accoglienza per i defunti, dolci tradizionali dal nome macabro (come ad esempio “ossa di morto”), questue di bambini nelle case, zucche intagliate, feste con cene e libagioni, racconti terrificanti. Questo a dimostrazione che l'intero bagaglio delle festa è non solo, come è ovvio, di derivazione europea, ma anche di larghissima diffusione, che supera (forse precede) i confini della cultura celtica a cui normalmente è attribuito.
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