[Roberto Zottar] L'Epifania, "che tutte le feste porta via", ci rende forse un po' tristi: via le decorazioni, giù l'albero, in cantina il presepe! Ci rallegra però il falò di inizio anno, tipica tradizione popolare dell’Italia nord-orientale, che in Friuli è detto “pignarûl”, nella Bassa friulana “cabossa”, in Bisiacaria “seima”, nelle provincie di Treviso, Pordenone e Venezia “panevìn” o “panaìn” (da “pane e vino”, in segno di augurio per un anno di abbondanza), ma anche “fogherada”, “bubarata”, “foghèra” o “casèra”. Ma è anche il periodo di un dolce ancestrale, fatto col pane comune raffermo, ma arricchito per propiziare abbondanza e prosperità.
“Pan e vin, ła pinsa soto el camin”. “Pan e vin, la luganega in tel cadin, la pinsa sot le bore, chi che ha pressa, chel core” (pane e vino, la salsiccia nel catino, la pinza sotto le braci, e chi ha fretta, corra!) s’intonava, ma si usa ancora, al bagliore del falò nel Friuli Occidentale. Descrive con accuratezza come era composta la cena tradizionale, la sera del 5 gennaio: salsiccia, polenta, radicchio condito con le “frisse” (ciccioli) e per finire la pinza cotta nella cenere, dolce immancabile anche nelle famiglie più povere. Questa torta rustica, dal tipico retaggio contadino, è presente in Friuli, nel Veneto e in alcune vallate del Trentino.
Il suo nome, che è lo stesso del soffice dolce pasquale completamente diverso, si declina da “pintha” lungo il Livenza a “pinze” lungo il Tagliamento, attraverso i vari “pinsa” | ”pincia” | ”pinse” nella fascia di transizione. Nel Veneto si chiama anche “Pinza dea marantega”, cioè della befana, o ”torta vilàna” e nella zona di Vicenza ”putàna”, nome quantomeno pittoresco forse in riferimento al metodo di cottura o al fatto che accoglieva bene qualsiasi ingrediente pur di diventare apprezzabile. L’etimo di pinza è molto incerto, forse lo stesso di pizza, trattandosi di un dolce piuttosto basso, dal verbo latino “pinsere”, battere, pigiare, infarcire.
Essendo cucina popolare le varianti sono tante quante le famiglie che la realizzavano in base a ciò che avevano a disposizione, ma si possono raggruppare in due tipologie, una più consistente, più pesante e compatta e l’altra, a base di lievito madre, che potremmo diremo meno “gnucca”. Gli ingredienti sono semplici, tipici della tradizione contadina, comunque oggi molto più ricchi che in passato. Vengono impastati insieme a seconda delle ricette: pane raffermo, farine di frumento e di granoturco, latte, zucchero, uova, gherigli di noce, fichi secchi, uva passa, canditi, ma anche zucca, mele, semi di finocchio, strutto o perfino polenta. Un tempo si avvolgeva l’impasto in foglie di verza e si cuoceva sotto la cenere del focolare. Oggi, nell’era dei panettoni industriali, in cui un po’ di saggezza contadina è rimasta, la pinza è anche un pretesto per dare destinazione agli avanzi di frutta secca di cene e cenoni e infatti un tempo si usava anche il grasso del musetto (cotechino).