[a. m.] Giuseppe Vizzotto Alberti nasce in una famiglia di rinomati affrescatori e decoratori di interni - l’unica, forse, che avesse una tradizione di pittura a Oderzo - ed inizia l'apprendimento col proprio padre Giobatta, detto Socrate, e il nonno e lo zio paterni. Esaurita la prima formazione nella locale scuola tecnica dove s'era fatto già apprezzare per le doti di disegnatore, è chiamato a cooperare come maggiore dei fratelli al lavoro del genitore, non avendo la famiglia risorse economiche per fargli proseguire gli studi. Sono esperienze che non resteranno prive di effetto per l’affermazione futura, se si pensa alle tecniche di affresco in seguito usate dal pittore.
Il talento del giovane fatto di padronanza del disegno e di senso del colore si mostrò presto superiore al livello di alto artigianato che sarebbe stato sufficiente nell'attività lavorativa. Ad intravederne le potenzialità artistiche e a guidarlo con maggior metodicità fu il pittore e insegnante di disegno nell'Istituto tecnico "Riccati" di Treviso, Giorgio Martini, padre e maestro di Alberto Martini, futuro pittore simbolista, e maestro anche dell'omonimo Arturo Martini, grande scultore trevigiano. Il giovane allievo poté assimilare anche la pratica della riproduzione di quadri antichi, di cui Martini era un valente copista. Ai rapporti con l’insegnante - secondo i ricordi del fratello Enrico - sarebbero da ricondurre sia le prime conoscenze della storia dell’arte di Giuseppe sia la passione con cui fin da ragazzo studiava questa materia e teneva presso di sè molti libri sull’argomento. Infine fu Giorgio Martini ad insistere con il padre di mandare Giuseppe all’Accademia di Belle Arti di Venezia, il che avvenne nel 1881. A 18 anni partì per Venezia, sovvenzionato con una modesta somma assegnatagli dal Comune di Oderzo per un soggiorno di studi all'accademia veneziana, ma soprattutto intenzionato a trovare un lavoro per mantenersi, mettendo a profitto la propria abilità nel disegno; progetto che gli riuscì impiegandosi presso il mobilificio Biasotto e nella litografia Usigli e Ferrari.
L'Accademia di Venezia era allora significativamente influenzata da Pompeo Marino Molmenti (1819-1894)(1), che aveva già avuto come allievi, tra gli altri, Guglielmo Ciardi (1842-1917) nei primi anni Sessanta, Tranquillo Cremona (1837-1878) durante gli anni Cinquanta, iniziatore della Scapigliatura in pittura, Giacomo Favretto (1849-1887) tra il '65 e il '70, il più acclamato della giovane "nuova generazione veneziana", Luigi Nono (1850-1918) dal 1865, Alessandro Milesi (1856-1945) dal 1869 al 1874, Pietro Fragiacomo (1856-1922) dal 1879(2), alcuni dei quali saranno poi in amicizia, oltre che in contatto, con Vizzotto Alberti. Nella scena veneziana in quegli anni non erano dimenticati i soggiorni del pittore napoletano Michele Cammarano (1835-1920)(3) e riverberava da Parigi l'esperienza del veneziano Federico Zandomeneghi (1841-1917), l'impressionista "italiano"(4).
Nel periodo di formazione durato fino al 1886 all'Accademia di Venezia furono notati la sua predisposizione, la serietà e l'impegno negli studi, che gli valsero numerosi riconoscimenti. Ebbe compagni in accademia e poi amici lo scultore pittore possagnese Stefano Serafin (1862-1944)(5), futuro conservatore della Gipsoteca Canova di Possagno, e il padovano Emilio Paggiaro (1859-1929)(6). Parallelamente, scelta casa in fondamenta Malcanton 3448 vicino a campo S. Margherita, allora vivace punto di incontro per una nuova generazione di giovani pittori, s'impegnava in una propria attività artistica, senza trascurare - dotato e versatile qual era negli acquerelli - dapprima i generi maggiormente richiesti che ritraevano scene in costume della Venezia settecentesca, ancora insistenti su galanterie e riti sociali o mondani, tempi di carnevale, personaggi imparruccati, in scia del successo delle opere di Giacomo Favretto. Questa iconografia, pur facile da eseguire per lui, non era però nelle sue corde più genuine, attirato piuttosto da soggetti popolari contemporanei e scene realistiche della quotidianità (belle popolane a passeggio per le fondamenta o al mercato, fasciate nei loro immancabili scialli variopinti, intente alla spesa o alle "ciacole", venditori e bancarelle, pescatori in laguna, contadinelle, bambini che giocano a riva, lavandaie ...), inseriti in altrettante vedute veneziane che fanno loro da vere quinte scenografiche, anche se neppure la rappresentazione di questo spicchio di realtà era libero da una retorica di genere, folklore prediletto dalla committenza straniera a Venezia. All'interno di questi generi la sua bravura è ormai apprezzata dalla critica locale e il livello di qualità raggiunto è pari o «superiore a tanti suoi colleghi più acclamati».
Con la tela El gabia creanza del 1887 - anno della morte prematura di Giacomo Favretto, a soli 38 anni, per fulminea malattia - esordisce ad una esposizione nazionale, quella di Belle Arti a Bologna nel 1888. È un garbato aneddoto di interiorità domestica popolare, realistico e ironico al tempo stesso, dove una madre sgrida il gatto che ha rovesciato la scodella di latte preparata per il figlioletto, sicuramente un'opera ascrivibile all'influenza della lezione favrettiana, se si pensa - per analogia - al sottile gusto per l'ironia unito alla vivissima capacità descrittiva e narrativa de Il sorcio, che ritrae con realismo virtuosistico la scena di un bambino intento a scovare un topolino nascostosi sotto un mobile, mentre tre ragazze, probabilmente le sorelle, letteralmente arrampicate sul canapè per paura, seguono, a debita distanza, la caccia, dando indicazioni al fratellino.
Esempi di opere eseguite fino a quest'epoca restano: del 1877 uno Studio di gessi, combinazione di bassorilievi e pezzi anatomici scultorei, in cui non sembra proposta una lineare composizione "scolastica" bensì un insieme di lacerti collocati in modo non canonico a richiamare un quid di "metafisico" (Paolo Campopiano, cit.); del 1878 una Natura morta ad acquerello, assemblaggio inaspettato di un coperchio di rame, un piatto bianco, una zuppiera vuota rovesciata di ceramica, una caraffa di coccio, un cestino intrecciato di vinchi contenente due carciofi, due patate, due mezze cipolle; del 1882 un Paesaggio atemporale ad acquerello, invero fortemente manieristico; del 1884 un Ritratto di vecchia e un Ritratto di bambino, a matita e carboncino, e lo Studio al Malcanton; del 1885 Notturno nel chiostro ad acquerello e uno Studio di gessi (teste e volti), a matita; del 1886 un già individualizzato Mercato a Venezia, ad acquerello, soggetto capostipite varie volte replicato successivamente, ma mai banalizzato; del 1887 un Nudino a china e la già citata opera di esordio nazionale El gabia creanza.
Continua... [in preparazione]
Muore a Venezia nel 1931.
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Note
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È l'esordio del giovane pittore ad una esposizione nazionale, quelle di Belle Arti a Bologna nel 1888, nel solco del «generismo intimista aneddotico», affermatosi con largo seguito nell’ambiente artistico veneziano nell’ultimo scorcio del secolo. Una madre ha preparato per il figlioletto una scodella piena di latte, ma il gatto l'ha rovesciata e la donna lo rimprovera appunto con l'espressione "El gabia creanza" (così anche secondo i ricordi di Enrico Vizzotto Alberti, fratello del pittore, nella conversazione del 1974-75 raccolta da Lina Sari per la propria tesi di laurea). Una riproduzione dell'opera si trova in Paolo Campopiano, Giuseppe Vizzotto Alberti (1862-1931). La vita e l'opera, Grafiche Italprint, Treviso, 1998, p. 6. È un'opera che - per «padronanza di mezzi espressivi e caratteri pittorici» (Campopiano, 1998) - può dimostrare quanto riesca già a distinguersi dai soggetti ispirati alle stesse tematiche del genere che eseguono all'epoca Pastega, Milesi, Laurenti ed altri.
Dopo la trasferta siracurana del 1888 per decorare una villa nobiliare di Baulì, per la quale si dispone di scarsa documentazione, nel 1889 a Giuseppe Vizzotto Alberti fu assegnato per concorso ministeriale l'incarico più complesso di affrescare l'abside e progettare la ricostruzione architettonico-decorativa della Basilica della Madonna dei Miracoli a Motta di Livenza (monumento nazionale). Il lavoro fu interrotto - sembra per inadempienza contrattuale del priore - e proseguito da altri decoratori che si attennero comunque al progetto di Vizzotto Alberti, di cui ci restano alcuni indicativi cartoni preparatori.
Di Preludio resta una fotografia. Da due barche affiancate nell'immobile laguna antistante la riva degli Schiavoni un giovane e una giovane hanno un tenero colloquio amoroso l'uno di fronte all'altra. È il codice dell'amore cortese applicato al mondo popolare. Amore ha la potenza di nobilitare anche l'incontro galante di semplici popolani (come dimostrano i loro abiti), elevarne i sentimenti ed ingentilirne i gesti. Venezia, sullo sfondo, impreziosisce l'aneddoto, si offre come un'intensa coreografica teatrale, decora di bellezza la scena
Preludio - in senso tematico - è capostipite di numerosissime opere successive del pittore, ascrivibili al generismo realista o verista e al vedutismo. Questo tipo di pittura non escludeva corde genuine d'ispirazione nell'artista con operine di grande abilità compositiva ed espressiva e poteva perciò uscire dalla serialità, ma al tempo stesso incontrava all'epoca con facilità la domanda di committenti privati locali e stranieri (inglesi, tedeschi ...) e, rappresentando anche una risorsa economica per i pittori, soprattutto in momenti di necessità, rischiava di isterilirsi nella replica dei medesimi soggetti. Prediletto dagli acquirenti, era gradito anche alla critica provinciale. Il fratello Enrico ricordava che «un inglese s'invaghì talmente» di un acquerello non ancora terminato che raffigurava il liston di piazza S. Marco con piccole figure «da volerlo acquistare sebbene incompiuto». Nei momenti di buoni affari, «il guadagno per un quadro di medie proporzioni si aggirava sulle 2000 lire, pari a circa 2 milioni e 500 mila lire attuali» (cifre del 1974-75, quando Lina Sari raccolse per la sua tesi di laurea la testimonianza di Enrico Vizzotto Alberti).
A Brera nel 1894, Giuseppe Vizzotto Alberti presentò, oltre a Preludio, anche altri due dipinti: Ave Maria e Vespero, di cui si sarebbero perdute le tracce. Dal Prospetto delle vendite di opere, cit., il primo acquirente di Vespero risulta Alberto Vonwiller.
Una bella popolana è sdraiata non senza voluttà su un prato di cardi selvatici. La scena, che occupa forse i quattro quinti dell'intera inquadratura, rimarrebbe rusticana e naturalistica senza l'indefinita e vaga Venezia che s'intravede sullo sfondo, l'ultimo quinto della tela. Si può discutere se il pittore abbia sproporzionato le due dimensioni - la splendida città e l'umile campagna - e non sia riuscito a fondere le due realtà superando la loro distinzione... ma basta anche solo quell'orizzonte di una sfocata Venezia a trasfondere il sonno-sogno o la visione ad occhi socchiusi della giovane in un'aura elevata e sentimentale dove i due mondi stanno comunicando.
La rappresentazione non manca di senso metaforico: «il significato di spinoso (il cardo)» è collegabile «alla bellezza spesso spinosa delle giovani donne» . Il significato simbolico - non erudito - appare «legato ai luoghi comuni e alla vita sociale, molto spesso ispirate alla realtà rurale dell'entroterra trevigiano», di cui il pittore anche in altre opere eseguite in quegli anni si era fatto «uno dei più sinceri interpreti» (Paolo Campopiano, Giuseppe Vizzotto Alberti. La vita e l'opera, cit., p. 9)
L'opera - in mostra alla prima Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia nel 1895 - era stata acquistata dall'allora ministro Guido Baccelli per la Galleria d’Arte Moderna di Roma, ma fu "esiliata" a Ravenna, dove si trova tuttoggi in deposito permanente presso il Museo d’Arte della Città di Ravenna. Durante il periodo fascista la commissione giudicò indegno che nella galleria romana, vetrina d'arte di livello nazionale, figurassero quadri di autori che avevano idee non collimanti con quelle del regime. Il fratello Enrico - nella conversazione raccolta nel 1974-75 da Lina Sari per la tesi di laurea - ricordava lo sdegno del pittore e di altri colleghi dell’ambiente veneziano, tra cui anche Angelo Dall’Oca Bianca cui toccò simile sorte per un proprio ritratto della madre (Angelina Sari, Il pittore opitergino Giuseppe Vizzotto Alberti (1862-1931), UniPd, Tesi di laurea, 1974-1975, Relatore prof. Camillo Semenzato).
Nella scena, ambientata tra un ponte e una parte della calle San Pantalon di Venezia, tre sono i tipi umani rappresentati. In primo piano, hanno appena sceso la breve scalinata del ponte una donna, con un bambino in braccio e un mazzo di verdura comprato al mercato stretto in mano, e una ragazzetta che si tiene alla gonna della madre per non perdere il passo o scivolare sul lastricato reso viscido. Al lato destro, più indietro, una vecchia (forse una mendicante) - non è chiaro se soffermatasi o impegnata a scendere gli ultimi gradini del ponte - stringe fra le mani uno scaldino. Più indietro ancora, appena all'inizio della rampa opposta del ponte, comincia a salire un vecchio affaticato, unico a ripararsi sotto un ombrello, forse indizio della sua condizione benestante.
A visitatori e critici conterranei (La Gazzetta di Venezia) il tutto appariva «eseguito con maestria veramente encomiabile». Il pittore era riuscito a ritrarre «perfettamente il colore veneziano» e trasfondere nella tela «quella tristezza che regna – specialmente nella nostra città – in una giornata piovosa d’inverno»: il selciato bagnato, le pozze d’acqua, la tinta cinerognola del cielo... Piaceva anche l'intensificazione patetica delle figure, che nel rapporto fra loro suggerivano una mesta filosofia corrispondente all'uggia del mattino piovoso: «Unendovi il sentimento» egli aveva fatto risaltare «il contrasto fra il ricco impellicciato sotto l’ombrello, la vecchia mendica ferma sul ponte col caldanino e la popolana con un lattante in braccio ed una bambina alla mano che sfida la pioggia per recarsi a casa con le scarse provviste di famiglia» («Gazzetta di Venezia», Articolo, senza data né firma, Archivio della Biennale Venezia; riportato in Angelina Sari, Il pittore opitergino Giuseppe Vizzotto Alberti, cit.).
Di questo dipinto, anch'esso esposto alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia del 1895, rimangono copie fotografiche e riproduzioni in cartoline d'epoca. Sotto la pioggia - una delle quattro opere (le altre erano Cardo selvatico, Panem nostrum e Nubi vaganti) con cui l'autore si sottoponeva per la prima volta ufficialmente al giudizio della critica internazionale - fu premiata da un referendum popolare come «quadro di vita veneziana, osservato con occhio sensibile e delicato di artista» e il Re lo fece acquistare per conto della Galleria d’Arte Moderna di Roma. Lo accompagnava una poesia di gusto piccolo borghese e provinciale del parmense Eugenio Mortara [Vedi].
In un'animata scena di popolani lungo le fondamenta veneziane, un'energica ed intensa donna caricata del peso di due cesti pieni e di matasse di cordami sulla spalla guarda - in primo piano - verso chi la ritrae o chi la sta osservando. I personaggi sono tipi umani vicini alla "gente" che il pittore sente di amare di più, memore della realtà contadina e degli umili impegnati nei mestieri quotidiani nelle sue terre natali.
Del dipinto è documentato anche quello che sembra l'abbozzo preparatorio (tecnica mista su carta, cm. 21,5 x 18), appartenente a collezione privata, visibile nel sito Studio Mondi - Castelfranco Veneto
Dal mondo popolare della terra d'origine attingono anche i due successivi dipinti dello stesso anno presentati all'Esposizione nazionale di Belle Arti di Torino del 1898: Il canto della sera ed Ieri e oggi.
In una scena di solido realismo, un nonno che ha viso e mani scavati da tutti i suoi anni - in piedi ma con entrambe le mani poggiate sul bastone per meglio reggersi - è accanto alla nipotina, seduta e intenta a sfogliare o leggere un libro o un quaderno, forse per mostrare al nonno di che cosa sia ormai capace e leggergli cose che egli non saprebbe leggere. Il vecchio (il mondo di ieri) con un accenno di sorriso affettuoso e forse compiaciuto fissa la giovane vita che è il suo proseguimento (oggi) e potrà perpetuarlo in futuro. Di grande significato è che sia proprio nelle gracili mani di una ragazzina - una donna - lo strumento che potrà darle istruzione e cultura per superare la subalternità del vecchio mondo contadino. Una realtà - quella rappresentata dal pittore - forse non ancora così affermata nell'epoca in cui dipinge il trapasso tra questi due emblemi generazionali.
Una contadina nel tipico quotidiano costume è colta in un momento di riposo dal lavoro dei campi. Le mani una sopra l'altra premono sul bastone dell'arnese di lavoro e sopra le mani la donna appoggia il mento. Lo sguardo è assorto e intenso, l'espressione è dura, forse rattristata, la postura è rigida: traducono la fatica o un travaglio interiore o una preoccupata meditazione. La bellezza che emana non è convenzionale o arcadica, ma è innegabile. Al mondo georgico il pittore strappa una rivelazione veristica della condizione umana e della soggettività individuale. Non c'è alcuna compiacenza bozzettistica e la scena non si lascia chiudere nel generismo manierato. Potrebbe ben integrarsi nelle novelle o nei romanzi veristi verghiani.
Anche con questa tela attirò il favore critico. Secondo il recensore Silvio Paoletti (1864-1921), anch’egli pittore, l’autore rivelava «qualità non comuni e personali di osservatore e di esecutore». «Una certa rigidezza, una certa secchezza di contorni» non erano difetto, ma contribuivano «a dar maggior rilievo al carattere individuale dell’artista» (Sylvius D. Paoletti, L’arte alla III Esposizione internazionale di Venezia, cit.).
Negli anni che vanno dal 1905 al 1910 sono collocabili le decorazioni Liberty nella Villa Antonini a Crocetta Trevigiana e nell'Hotel Bauer-Grünwald, ex Grande Albergo Italia, a Venezia.
La moda Art Nouveau non si configurò come un punto di svolta della sua attività pittorica, ma piuttosto come un allargamento - di non lunga durata - della sua esperienza entro una corrente d’avanguardia, dettatogli dai gusti della committenza e dalla necessità di adattare la sua decorazione alle architetture dei luoghi in cui era chiamato ad operare, com'era solito fare, sia precedentemente sia in futuro, anche per edifici di tutt'altra architettura (Basilica della Madonna dei Miracoli a Motta di LIvenza, Torre di San Martino della Battaglia, Palazzo Corner della Ca' Granda a Venezia, Padiglione veneto della Mostra Etnografica a Roma, Banca d'Italia in Palazzo Dolfin Manin a Rialto-Venezia, ecc.).
Durante la prima guerra mondiale la villa fu distrutta e di questi lavori restano alcuni studi e bozzetti, che conservava il fratello Enrico, e le sue testimonianze in quanto aiutò il fratello nelle decorazioni medesime.
Le "Stagioni" dipinte negli ambienti dell'Hotel Bauer-Grünwald furono eliminate nei lavori di restauro fatti tra anni Sessanta e Settanta. Ci resta la possibilità di conoscerle solo grazie alla raccolta del nipote Aldo Travain, che conservò i modelli serviti alla loro esecuzione.
Della vita campagnola - fra i soggetti che Vizzotto Alberti non smetterà mai di eseguire - sono colti anche i momenti di serena vita vissuta pur entro le fatiche del lavoro, come in questo "Vendemmiale" esposto a Venezia nel 1910.
«La Sala della Nave fu ideata dall’on. conte Piero Foscari e dal pittore Vizzotto Alberti - al quale si devono il bel pannello “Le espansioni commerciali e coloniali di Venezia” e quello “Venezia navale vittoriosa in guerra” - e fu allestita dall’ing. conte Colombini» (Gino Cucchetti, L’Arte Veneta all’Esposizione di Roma. Il padiglione veneto alla mostra etnografica, in Le Esposizioni del 1911. Torino, Roma, Firenze, p. 309-314 | ia802809.us.archive.org/esposizionidel1911
Il dipinto di Giuseppe Vizzotto Alberti "Sotto la pioggia", in mostra alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia del 1895, era ripreso in questo componimento da Eugenio Mortara[1].
SOTTO LA PIOGGIA
Spruzza minuta sotto il ciel perlaceo
la pioggia; umido il lastrico riflette;
sovra il remoto ponticello gravita
tutto il tedio dell’ore maledette.
Sferzano i primi freddi il viso ai celeri
rari passanti che se n’vanno mesti.
Non perdon tempo; del viver l’assidua
cura li tien alacri all’opra e desti!
Ecco una madre vien fiorente, giovane
che l’erbe compre reca dal mercato,
un bimbo stretto al sen copre sollecita
e un’altra bimba le cammina a lato
che le s’appiglia ai panni e a lungo seguita
stanca con curioso occhio i passanti
mentre sorregge col braccino debole
poche fascine che poi crepitanti
procureranno un istante fuggevole
di tepor calmo, mentre la fiammata
cuoce la cena e s’attende l’esausto
babbo che torni dalla sua giornata.
O forte donna! Non sai gli ozi languidi;
come si falsa il cor candida ignori,
il cinguettar rifuggi inane e garrulo,
ma dal primo mattin salda lavori.
Me lo rivelan la figura semplice,
le molteplici cure e il mite sguardo:
la storia tu sei virtù del popolo,
ignote linfe ha il ceppo tuo gagliardo!
Per i gradini giù, dal ponte cauta
una vecchietta vien collo scaldino;
sale più lungi un vecchio sotto un lucido
ombrello e va pensoso a capo chino;
è un modesto borghese e par che l’occupi
di gravi cure un sordo lavorio.
In entrambi si specchia il malinconico
senso del cielo, dell’ora, del rio;
in quell’ora, alla piova, al certo pensano
che son essi il novembre della vita.
Ma fa che splenda il sol, ch’essi presentano,
nelle lor vene la stagion fiorita,
che brilli terso e nereggiante un calice,
e scorderemo età, crucci ed affanni;
per rammentarsi sol col core in giubilo
l’ore più belle dei lor begli anni!
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[1] Eugenio Mortara di Parma, Poesia “Sotto la pioggia”. Archivio della Biennale Venezia. La poesia non è datata.
[a. m.] Nella pittura di paesaggio o in quella di genere della Venezia ottocentesca o settecentesca, Giuseppe Vizzotto Alberti non si sottrae alla lezione di altri artisti con cui opera in contemporanea e ne assorbe consapevolmente certi stilemi(1), ma non manca certo di impulsi, attenzioni, inquadrature, interpretazioni e tecniche personali. Non è solo una produzione con cui asseconda con piacevoli composizioni in quegli ultimi decenni del secolo il gusto per l'aneddotica pittoresca locale che incontra favore nel pubblico provinciale ed internazionale(2). È una tematica a cui l'autore dimostra di credere con persistenza e coerenza, perché con opere di tale soggetto partecipa, sicuro dell'estro e dei mezzi pittorici propri, alle esposizioni nazionali e internazionali e codifica sempre più originalmente una parte non secondaria della propria attività fino all'ultimo.
Scene e vedute lagunari
Nelle scene e vedute lagunari, eseguite in gran numero, gli elementi naturali e la piccola - in proporzione di scala - umanità che le popola esibiscono una stessa tranquillità. In un mondo calmo, non direi immobile, gli umili recitano la loro parte di accettata quotidianità, sia di lavoro sia di relazione sia di riposo, senza svelare inquietudini e dissidi né psicologici né sociali. L'artista si avvicina alla realtà rappresentata con la disposizione d'animo di un empatico riguardante, che li ama e non li deforma. Il popolo basso non merita critica o biasimo, al massimo qualche ironica puntura di spillo. Al momento "panico" dei meriggi, dei crepuscoli, delle notti rischiarate dalla luna, i confini di cielo e mare sfumano e si fondono, i due elementi primigeni s'incontrano, si rispecchiano, si corrispondono, e chi è nella marina lagunare non poggia più sopra una città o un mondo di uomini ma è immerso in un cosmo che s'è fatto indefinito. Coloristicamente rilucono i delicati toni perlacei digradanti dal grigio all’azzurro e quelli dorati. Possono sembrare solo prelievi dalla tavolozza di Pietro Fragiacomo (1856-1922) ed ancora di Guglielmo Ciardi (1842-1917), ma in verità imprestati si integrano armoniosamente all'evoluzione della propria tavolozza ricca di velate tinte pastello o neutre, parca di colori forti e accecanti, che si fa e resta inconfondibile prova dopo prova, con pari dignità degli altri. Anche il ritaglio delle inquadrature è spesso quello collaudato, ma non senza che si noti anche un apporto vizzottiano riconoscibilmente specifico.
La narrazione della vita popolare
Il più ampio contributo alla pittura del suo tempo Vizzotto Alberti lo offre con la narrazione e la descrizione della vita popolare, quando, con gusto dell'aneddoto realistico, restringe e focalizza l'angolo visuale sul fervore dei campielli, l'animazione dei mercati, il passeggio o il passaggio negli angoli caratteristici, le ciacole delle popolane, i crocchi di acquaiole attorno ai pozzi, gli idilli tra giovani, le processioni, i pescatori che smatassano e districano le reti, l'attività delle lavandaie, i lavori all'aperto di donne che tessono, filano la lana o tingono i filati, le contadinelle ai bordi della terraferma lambiti dalla laguna, le donne e le ragazze fasciate in scialli variopinti e squillanti, i folti capelli raccolti a chignon o coperti da un velo leggiadro e arioso, che balzano in primo piano davanti alla schiera di comprimari e comparse della scena, veri e propri ritratti ambientati ai piedi di ponti, lungo le fondamenta e i sestrieri, a fianco dei muri di una casa o dei muretti lungo riva dei canali, invece che sul set di un boudoir, un salotto, un divano, un cafè, un atelier, le panchine di un parco (e meriterebbe esaminare approfonditamente anche il significato della predilezione per le figure femminili e della loro dominanza nelle scene e nei ritratti, senza accontentarsi del mero discorso sulla bellezza muliebre da celebrare anche nelle popolane non solo nelle dame).
Il pittore opitergino non è l'unico che pratica a Venezia questo genere, né il primo, ma - scovati quanti apparentamenti e somiglianze si vogliano con gli altri artisti - non è neppure il ripetitore, seppur non inferiore, di soggetti che dipingono anche gli altri. La perlustrazione tematica inseguita in quest'ambito non solo è per quantità e varietà più estesa di quella di altri maestri del genere, ma soprattutto mostra il respiro di una compiuta narrativa sul mondo popolare, analoga a quella di uno spigliato novelliere verista o realista nella letteratura della sua epoca, con mezzi che portano alla perfezione il linguaggio (in questo caso, pittorico) adatto a questa narrazione.
L'evocazione settecentesca
Il neosettecentesco non ha trovato, invece, slargo in Giuseppe Vizzotto Alberti, che pur ha dato qualche prova superlativa in quel genere: almeno Galanterie del Settecento. Scena di costume lungo la riva degli Schiavoni, 1889, e Mercato del Settecento, 1919.
Le "galanterie" del mondo di ieri non sono nel vissuto e neppure nell'immaginario dell'artista. Per i contenuti, la voce del Settecento gli è muta. Borghesi agiati e patrizi nei loro costumi vintage sembrano più i recitanti di un carnevale che autentici abitanti. Nel Mercato del Settecento essi sono addirittura ripresi di spalle, non hanno più volti, come attardati eppur spensierati sopravvissuti che "lasciano il campo", sia allontanandosi dal campo veneziano che ospita il mercato sia uscendo (dal campo) di scena. L'inquadratura totale è l'accostamento giustapposto di due metà temporali ed esistenziali di pari ampiezza, la destra con le tre giovani, la sinistra con i tre personaggi in costume settecentesco (l'uomo solo e una coppia) e sullo sfondo il palazzo patrizio. L'uomo al centro non sembra neppure interessato all'acquisto, ma piuttosto intento ad un commiato, una riverenza o un complimento alla bella venditrice di frutta che lo fronteggia divertita. Quale allegrezza invece nei visi e spavalda postura hanno le tre venditrici di pollame, verdure e frutti tra i loro banchi ... e sono abbigliate in vesti e copricapi allo stesso modo delle loro omologhe tardo ottocentesche.
Svestiamo con un tocco di magia ogni personaggio - tranne le popolane - presente in queste due più belle rievocazioni settecentesche dell'autore e rivestiamolo di panni popolani contemporanei, togliamogli quelle parrucche, sciogliamo quegli arricciamenti e quei boccoli, disincipriamo quei visi, sfiliamo quei guanti candidi e quei ventaglietti alle dame e quei bastoncini da passeggio ai cavalieri, consegniamo a ciascuno un suo attrezzo da lavoro maschile o femminile, spegniamo quei colori laccati e chiassosi ... la mascherata si smonta e il "nuovo stato sociale" è pronto a prendersi il proscenio, né peggiore né migliore dell'antecedente, solo più temporalmente vero e rivelatore delle trasformazioni che vanno modificando la società anche nell'apparente immobile Venezia.
La lezione settecentesca gli è stata utile o necessaria, invece, quando ha dovuto soddisfare la committenza pubblica istituzionale per gli affreschi della "gloria di Venezia" nella sala del Consiglio provinciale a Palazzo Corner della Ca' Granda. Per quei temi, Tiepolo ma anche Veronese, il "divino Paolo", saranno modelli ancora parlanti, per ciò che si è solidificato in mito di una Repubblica plurisecolare, che ha perduto l'antica grandezza ma ancora si celebra.
Note
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La bellezza di questa giovane deve aver affascinato Vizzotto Alberti per giustificare un ritratto non commissionato. Appare anche, nello stesso vestito, in almeno un altro dipinto del pittore.
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Alternata alle opere da cavalletto, l'attività nel campo dell'affresco e della decorazione architettonica non risultò secondaria, non solo perché gli procurava introiti che potevano attenuare il disagio economico come nei primi anni veneziani, ma anche perché era mossa ad avvalersi della sua arte una prestigiosa committenza sia privata che pubblica e ciò, naturalmente, anche se non gli consentiva piena libertà inventiva e realizzativa, ne confermava la reputazione per il valore.
Si conteranno la decorazione per una villa nobiliare di Baulì a Siracusa; per l'abside, il soffitto e le navate della Basilica della Madonna dei Miracoli a Motta di Livenza; per le pareti del Museo Torre di San Martino della Battaglia; per la nuova Sala del Consiglio Provinciale nel Palazzo Corner della Ca' Granda di Venezia; per il catino absidale della Parrocchiale di S. Polo di Piave; per la principesca villa Antonini a Crocetta Trevigiana; per gli ambienti dell'Hotel Bauer-Grünwald, ex Grande Albergo Italia, a Venezia; per il Padiglione veneto nella Mostra Etnografica di Roma; per la sede della Banca d’Italia a Venezia in Palazzo Dolfin Manin a Rialto; per altre ville di Venezia, di Roma e di Nizza ...
[a. m.] Dopo la trasferta siracurana del 1888 per decorare una villa nobiliare di Baulì, per la quale si dispone di scarsa documentazione, nel 1889 a Giuseppe Vizzotto Alberti era stato assegnato per concorso ministeriale l'incarico più complesso di affrescare l'abside e progettare la ricostruzione architettonico-decorativa della Basilica della Madonna dei Miracoli a Motta di Livenza (monumento nazionale). Il lavoro fu interrotto - sembra per inadempienza contrattuale del priore - e proseguito da altri decoratori che si attennero comunque al progetto di Vizzotto Alberti, di cui ci restano alcuni indicativi cartoni preparatori.
Su altro incarico governativo nel 1892 era passato ad affrescare con soggetti di carattere storico-patriottico la Torre celebrativa della vittoria franco-piemontese a San Martino della Battaglia, insieme ad altri pittori, il veronese Vincenzo de Stefani (1859-1937), con il quale cooperò letteralmente a quattro mani, e Vittorio Emanuele Bressanin (1860-1941) di Musile di Piave.
← Vedi: Vizzotto Alberti Giuseppe | Gli Affreschi nel Museo Torre di San Martino della Battaglia, 1891-1892
La partecipazione nel 1895-96 - ancora a fianco dell'amico pittore Vincenzo De Stefani - alla decorazione della Sala del Consiglio Provinciale nel Palazzo Corner della Ca' Granda di Venezia non fu solo un capitolo felice di questa specifica attività, ma soprattutto una tappa fondamentale della sua carriera artistica. L'incarico loro affidato, su 18 altri chiamati, prefigurava un'opera grandiosa, tale da richiedere un impegno totale e prolungato: un quadro centrale di m. 5,50 x 2,30 e quattro rotondi del diametro di mt 1,70. nello scomparto dei cassettoni del soffitto, e la monumentale fascia alta m. 2,50 e lunga m. 43 che recingeva la vasta sala. Vi lavorarono infatti dodici mesi consecutivi e, ai primi di agosto del 1896, la Nuova Sala venne aperta ai consiglieri provinciali per la seduta inaugurale e al pubblico. L’Illustrazione Italiana parlò con ammirazione del lavoro frenetico dei due pittori e della loro assoluta simbiosi ideativa ed esecutiva grazie alla quale si erano completati a vicenda, giudicandoli «valenti nel rifondere col sentimento proprio» un «moderno eclettismo decorativo», impasto di reminiscenze paolesche (Veronese), giorgionesche, belliniane, tiepolesche nonché di accenti di Carpaccio, Mantegna, Botticelli, Tiziano. Non minore era il compiacimento per una committenza pubblica che aveva deliberato «di spendere migliaia di lire (decorazione e mobilio compreso L. 200.000), in un lavoro puramente artistico» («Illustrazione Italiana», n. 36, Settembre 1896). La nuova sala poteva dirsi «una esposizione di quadri artistici più che una sala soltanto decorativa e decorosa».
← Vedi: Vizzotto Alberti Giuseppe | Gli affreschi a Palazzo Corner della Ca' Granda di Venezia, 1896-1897
Negli anni che vanno dal 1905 al 1910 sono collocabili gli interventi a Crocetta Trevigiana nella Villa Antonini, commissionati dopo il 1904, stando non a documenti storici di commissione che mancano, ma a gran parte dei modelli dell’opera che portano la data del 1905, conservati dal nipote Aldo Travain. Il pittore - che è solito concepire la sua opera considerando prima di tutto l’architettura del luogo nel quale lavora - è chiamato in tale occasione ad adattarsi allo stile architettonico Liberty della villa. Deve lasciarsi attrarre quindi per la prima volta da una corrente d’avanguardia e sceglie per la decorazione delle quattro stanze implicate (stanza da ballo, da pranzo, salone della musica e studio) adeguate scene di caccia, paesaggi reali e geometrico-lineari, scene mitologiche, strumenti ed oggetti nuovi (es. la bicicletta, il violino, ecc.).
«La sala da ballo, partendo dal basso, è dipinta con un fregio a sostegno di specchi; le sovrapporte sono decorate con fregi a monocromo e figure di donne che danzano; nella parte superiore si trovano grandi affreschi con scene di maschere, balli veneziani. Notevole e curioso l’affresco in cui si vedono maschere in bicicletta.
Il salone della musica ha una decorazione floreale e varia che occupa tutta l’altezza della parete; in alto un lungo fregio diviso in riquadri con scene di putti che raccolgono frutta è reso interessante per la presenza di elementi vari, di animali feroci, di numerosi cervi su lontani sfondi paesaggio. Lo studio presenta forse l’opera più bella e ariosa: non scene particolari, ma una decorazione leggera, stilizzata in basso, vegetale e arborea in alto. I colori sono intensi, caldi.
La sala da pranzo ci presenta diverse scene di caccia riunite in alto da sfondo di cielo. Il paesaggio è continuo, e della stessa altezza. L’affresco, in questa sala, è diviso da lesene e da tratti di pura decorazione floreale e astratta. Nel soffitto non ci sono affreschi, la decorazione è molto semplice, a riquadri ottenuti da severe linee parallele che partono da testate di travi fatte a testa di capriolo» (Lina Sari, 1974-75).
Durante la prima guerra mondiale la villa fu distrutta e di questi lavori restano alcuni studi e bozzetti che conservava il fratello Enrico e le sue testimonianze, in quanto aiutò il fratello nelle decorazioni medesime.
Le Stagioni che decoravano gli ambienti dell'Hotel Bauer-Grünwald, ex Grande Albergo Italia, allargarono l'esperienza di Vizzotto Alberti entro il Liberty, stile artistico che pur interessandolo per venire incontro alle richieste dei committenti gli rimase in sostanza estraneo e non incise significativamente sulle restanti opere, restringendosi ad un breve periodo della sua attività pittorica. Si può credere che attraverso le Biennali veneziane abbia potuto conoscere la scuola pittorica viennese e forse Klimt, servendosi così di alcuni stilemi dell’Art Nouveau per i propri progetti. Nei lavori di restauro dell'Hotel fatti tra anni Sessanta e Settanta le decorazioni Liberty da lui eseguite furono eliminate. Senza giudicare sulla sensatezza di tale scelta da parte dei proprietari, si arrecò sicuramente una perdita sul piano della storia artistica veneziana e non sembra ancora rintracciabile alcuna riproduzione fotografica. Abbiamo la possibilità di conoscerle solo grazie alla raccolta del nipote Aldo Travain, che ha conservato i modelli serviti alla loro esecuzione.
«Rivelano una composizione estremamente libera, non prospettica; il colore è luminoso, crepuscolare, vitreo; il disegno è definito da linee musicali». La primavera «è chiusa dentro ad una sagoma rettangolare a forma di semicerchio in basso e di triangolo in alto. È dipinta con colori chiari su sfondo oro comune a tutte e quattro le stagioni: è raffigurata da una donna vestita di veli leggeri e in movimento, in base c’è un pavone e in alto, a sinistra di un drappo che si alza in volute verso il cielo, uno stormo di rondini. L’estate è rappresentata da una giovane donna in riva ad un ruscello, circondata da piante acquatiche; questa interessante figura versa acqua da una grande conchiglia, la testa è coronata di fiori. L'autunno è rappresentato da una vecchia seduta sotto un albero senza foglie. La donna si riscalda al fuoco reso graficamente in maniera vivace e sobria, l’albero spazia con i suoi lunghi rami fuori della cornice del disegno. L’inverno, come del resto le altre stagioni, è impersonato da una donna che in mezzo alle fiamme tiene tra le mani un vaso con un giglio. Notevole è il simbolismo presente in queste opere, il disegno è nervoso, gli sfondi sono dorati e presentano un mondo crepuscolare» (Lina Sari, 1974-75).
L'attraversamento per pochi anni del Liberty mostra di essersi concluso nel 1910, quando Giuseppe Vizzotto Alberti accetta l’incarico per la decorazione del padiglione veneto nella mostra etnografica tenutasi a Roma nel 1911 e quando lavora alla decorazione alla Banca d’Italia a Venezia. La decorazione è ritornata di tipo classico e la pittura è di ricordi storici cari agli ambienti ufficiali.
Per il Padiglione veneto ideò artisticamente e decorò la Sala della Nave, un ambiente «architettato severamente e sobriamente nel più puro rinascimento con pilastri a lesena, targhe, scudi e festoni a rilievo di quercia», le cui due porte erano sormontate da grandi pannelli. Uno rappresentava Le espansioni commerciali e coloniali, l'altro Venezia navale vittoriosa in guerra. Questo secondo quadro («due armigeri che in segno di trionfo issano sugli spalti di una torre merlata il glorioso vessillo di S. Marco in luogo di quello nemico gettato a terra; un ammiraglio ordina la cessazione del combattimento che ferve sullo sfondo») fu molto lodato dal Re nelle ripetute visite che fece alla sala(1).
← Vedi: Vizzotto Alberti Giuseppe | L'Arte Veneta all'Esposizione di Roma del 1911
I lavori di adeguamento dell'edificio alle accresciute necessità dell'Istituto di emissione, per ricavare al primo piano una sala centrale per il pubblico e tutto attorno i vari uffici, iniziarono nel 1911 e furono ultimati nel 1914. Gli stucchi in stile ottocentesco sul soffitto ad intonaco della sala del pubblico furono eseguiti dagli esperti decoratori Lorenzo e Giacomo De Pra-Perisella. Completavano l'insieme un affresco al centro della sala e due lunette laterali monocolori: «nel rotondo il cavaliere Vizzotto Alberti dipinse con la sua consueta vivacità di colorito L’Italia trionfante contornata dalle figure allegoriche del Commercio, dell’Industria e dell'Abbondanza. Nel cielo si profilano da una parte i camini fumanti di una officina, simbolo del lavoro, dall’altra il campanile e la cupola di San Marco simbolo dell’Arte»; nelle lunette «vi raffigurò scene dell’industria meccanica e del commercio vinicolo»(2).
La composizione presenta sotto un'ampia vela gonfiata dal vento una giovane donna in vesti non paludate ma quasi di popolana (allegoria-simbolo dell'Italia? di Venezia? della Banca d'Italia?) seduta sopra una grande àncora, di cui impugna il fuso con la mano sinistra, il dio Mercurio, alla sua destra, quasi a lei appoggiato, fornito degli attributi del cappello alato, dei calzari alati e del caduceo, e in secondo piano ma imponente la colonna di San Marco, attorniati dagli emblemi di potenti attività commerciali e produttive di terra e di mare.
Questa sintesi in gran parte rielabora informazioni e valutazioni riportate nella tesi di laurea di Lina Sari (UniPd, 1974-75) - ripetutamente citata e usata come testo di riferimento - che ringrazio di cuore per l'amichevole disponibiltà e voglio elogiare per il bel testo giovanile (pionieristico se si pensa che risale a 45 anni fa) su Giuseppe Vizzotto Alberti, già ricco di un apparato fotografico e documentario (l'archivio del nipote Aldo Travain e le testimonianze del fratello Enrico Vizzotto Alberti, allora ancora vivente), che è servito a tutti quelli (pochi, invero) che a considerevole distanza di tempo hanno poi trattato del pittore opitergino.
Durante e dopo gli studi all'Accademia cresce la considerazione di Giuseppe Vizzotto come pittore, le cui capacità si innestavano sull'esperienza di sistemazione architettonica oltre che decorativa acquisita nel lavoro giovanile a fianco del padre. Nel 1888, lo stesso anno in cui partecipò all'Esposizione nazionale di Belle Arti di Bologna col quadro El gabia creanza dipinto nel 1887, fu chiamato ad affrescare una villa di un nobile siciliano, Bauli di Siracusa, prima occasione delle poche in cui viaggiò al di fuori del Veneto. Restano scarse testimonianze di questa attività, ma nella collezione del nipote Aldo Travain di Padova(1), ora in lascito alla Pinacoteca Comunale Alberto Martini di Oderzo, sono raccolti "studi" e "progetti" preparatori sufficienti per esaminare il suo modo di operare. Rivelatrice è la documentazione riguardante l'incarico ricevuto l'anno seguente (1889), in seguito ad un concorso governativo, di dipingere l’abside della chiesa di Santa Maria dei Miracoli di Motta di Livenza e - grazie all'esito del lavoro - il suo progetto di ricostruzione architettonica e decorativa della medesima chiesa approvato dal ministero(2).
Il lavoro fu interrotto perché il pittore imputò al priore la mancata osservanza del contratto stipulato(3), così altri decoratori proseguirono le opere, servendosi comunque dei suoi studi per completare anche la serie dei profeti e delle decorazioni.
Gli unici dipinti da lui portati a termine sono dunque quelli relativi alla decorazione dell’abside. Nei lunettoni i quattro evangelisti sono racchiusi dentro tondi decorati ad elementi vegetali di gusto neo-rinascimentale (non senza echi della sua prima attività di decoratore di stanze con il padre). Il soffitto di gusto tardo quattrocentesco ha una decorazione razionale, non fantasiosa. Vi si inseriscono, occupando perfettamente i riquadri, figure di santi dipinte su superfici quadrate e tonde. Al centro del soffitto l'ideatore aveva collocato anche un riquadro rettangolare, affiancato dai quattro tondi, in cui è rappresentata la Madonna con il Bambino e i Santi.
Le decorazioni delle pareti si inseriscono adattandosi nell’architettura preesistente dell’ambiente. Sulle pareti sono dipinti alcuni medaglioni con decorazioni floreali, che scendono dall’alto verso il basso, così pure nei sottarchi dove sembra trapelare la preoccupazione - per horror vacui - di riempire tutto lo spazio con la decorazione.
L’affresco lasciato incompiuto fu terminato da un altro pittore, di cui non si conosce il nome, che seguì però fedelmente i modelli di Vizzotto Alberti.
Le decorazioni panoramiche a fresco che scorrono all’interno della Torre monumentale di San Martino della Battaglia − eretta a partire dal 1880 e inagurata nel 1893 grazie a una sottoscrizione pubblica promossa dalla Società Solferino e San Martino, fondata nel 1870 per volere del conte senatore Luigi Torelli − furono affidate a specialisti del genere quali Vittorio Emanuele Bressanin, Vincenzo De Stefani, Raffaele Pontremoli e Giuseppe Vizzotto Alberti, che ripercorsero gli episodi fondamentali delle guerre d’indipendenza e di unificazione nazionale dal 1848 a Porta Pia, «come in tante stazioni di una Via Crucis patriottica»(1), sofferta per la salvezza della patria (cfr. Fernando Mazzocca, Soldati e pittori soldati. Epopea e cronaca della guerra nella pittura di battaglie del Risorgimento italiano, in 1861. I pittori del Risorgimento, Catalogo della mostra, Scuderie del Quirinale (Roma), a cura di Ferdinando Mazzocca e Carlo Sisi, 21-39, Skira, Milano, 2010, p. 37).
«Nel 1892 fui chiamato a dipingere nella Torre di S. Martino e Solferino i due grandi quadri storici “La battaglia del Volturno 1860” e “La breccia di Porta Pia 1870”, che misurano 44 mq. di superficie ciascuno»(2). Giuseppe Vizzotto Alberti si vedeva aprire un credito di fiducia nel campo dell'affresco di grandi dimensioni sui temi "moderni" di storia patria che aveva portato all'unificazione d'Italia cari alla committenza governativa, invece che su contenuti di arte sacra, com'era avvenuto nella prima impresa individuale sempre per incarico del Governo nel 1889 nella Basilica della Madonna dei Miracoli di Motta di Livenza per la raffigurazione dei quattro evangelisti nei lunettoni dell’abside e le decorazioni dell’abside, delle pareti interne della navata centrale, dei sottarchi nelle navate laterali e del soffitto (esperienza peraltro interrotta per la mancata osservanza del contratto, da parte del padre priore)(3).
Il pittore poteva misurarsi sulla resa del reale storico-patriottico (non era il solo in quella temperie storica), affidandosi a solidi schemi pittorici appresi in accademia e padroneggiati con sicurezza. A San Martino della Battaglia non v'era bisogno di impostare una decorazione sull'architettura e l’affresco era ristretto a riquadri che richiamavano la pittura a cavalletto. Una difficoltà poteva costituire l'andamento curvo ascendente della parete e dunque la resa prospettica e non illusionistica dello sfondo e degli spazi. In tale contesto si trovò a lavorare a contatto con due compagni di scuola suoi coetanei, Vittorio Bressanin(4) (1860-1941) da Musile di Piave e Vincenzo De Stefani(5) (1859-1937) da Verona, col quale ultimo cooperò letteralmente a quattro mani nell'esecuzione. Gli affreschi di Giuseppe Vizzotto Alberti hanno strette attinenze stilistiche e si armonizzano con quelli degli altri colleghi pittori nella stessa Torre, senza rispecchiare una tendenza ben precisa all'interno del genere.
Le sue grandi composizioni storiche incontrarono il favore della critica e l’anno successivo (1893) gli venne conferita l’onorificenza di cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia da parte del re Umberto I, con la seguente motivazione, desumibile da una lettera del ministro della Reale Casa segretario di Sua Maestà: «Per attestarle la soddisfazione e benevolenza per l’intelligente onore con cui ha illustrato un glorioso fatto della indipendenza italiana nell’interno della Torre dedicata a Vittorio Emanuele II in San Martino»(6).
Le sette sale affrescate della Torre di San Martino della Battaglia furono sovvenzionate da cittadini privati ed enti pubblici che contribuirono alla loro realizzazione. Merita citare chi furono i sette mecenati che le finanziarono e quanto costarono(7).
Il conte bresciano Gaetano Bonoris, banchiere e deputato al Parlamento del Regno d’Italia, che realizzò a Montichiari l'omonimo castello, retribuì l’opera di Vincenzo De Stefani sulla battaglia di Goito del 1848, con la somma di 5500 lire.
Il senatore Alessandro Rossi di Vicenza con 6000 lire contribuì alla realizzazione dell’encausto di Vittorio Emanuele Bressanin sulla Difesa di Venezia del 1849.
Il cav. Giacomo Feltrinelli di Brescia con 5500 lire sovvenzionò l’affresco sulla battaglia del fiume Cernaia di Vincenzo De Stefani.
L'opera sulla battaglia di San Martino dipinta da Raffaele Pontremoli fu pagata 6000 lire dal Ministero della Guerra, socio della Società Solferino e San Martino.
Il Ministero dell’Interno, anch’esso socio, con 5500 lire finanziò l’affresco di Vizzotto Alberti sui garibaldini a Capua nel 1860.
L’opera di Raffaele Pontremoli sul Quadrato di Villafranca costò 6000 lire e fu pagata dal Senatore Vincenzo Stefano Breda di Padova, Presidente della Società Solferino e San Martino.
Infine, l’affresco sulla breccia di Porta Pia, dipinto da Giuseppe Vizzotto Alberti, fu offerto (5500 lire) dal marchese di Roma Luigi Medici del Vascello.
Al quinto livello del Museo della Torre di San Martino della Battaglia, nella sala del 1860, si ammira il dipinto a fresco − affidato a Giuseppe Vizzotto Alberti e finanziato dal Ministero dell’Interno − raffigurante un combattimento fra i garibaldini e le truppe borboniche di Francesco II, nella battaglia del Volturno (26 settembre - 2 ottobre 1860) vinta dall’esercito di volontari riuniti intorno a Giuseppe Garibaldi. Già nella campagna del 1859 l'apporto dei Cacciatori delle Alpi che, al suo comando, operarono sulle montagne alla sinistra dello schieramento franco-sardo, era stato della massima importanza per il vittorioso svolgimento delle operazioni della seconda guerra d'indipendenza.
L’artista sfrutta con notevole capacità compositiva l’andamento curvo della parete «per far visivamente precipitare l’esercito napoletano in fuga verso il basso sulla destra, letteralmente travolto dalla eroica foga dei garibaldini, che sembrano quasi franare sul nemico sotto lo slancio imperioso di un barbuto e biondo Giuseppe Garibaldi, appena visibile, mentre, sulla sinistra, in groppa ad un bianco destriero, incita i compagni all’attacco. Tutto intorno, avvolto in una intensa luce meridionale, il paesaggio, il cui verde risalta, smaltato e brillante, mostrando le notevoli qualità di Vizzotto Alberti come paesaggista. I contrasti cromatici, resi più forti dalla giornata di sole, sottolineano insieme alla gloria garibaldina – e in voluto contrasto con essa – anche l’eterna universalità della sofferenza che la guerra porta con sè, secondo i dettami di una ormai consolidata tradizione compositiva alla ricerca del giusto equilibrio fra naturalismo, riflessione e celebrazione» (Silvia Regonelli, Gli affreschi di San Martino della Battaglia. Il Risorgimento dipinto nel ciclo della Gran Torre, Allemandi & C., Torino, 2011, p. 39 | app.solferinoesanmartino.it | Leggi pdf)
Al settimo livello della Torre, nella sala del 1870, si celebra l'ultima tappa del percorso storico attraverso il Risorgimento nazionale, dedicata alla conquista di Roma, avvenuta il 20 settembre del 1870. L'episodio, affidato ancora una volta alla mano di Giuseppe Vizzotto Alberti e finanziato dal marchese Medici del Vascello, raffigura l'episodio della morte a Roma del maggiore dei bersaglieri Giacomo Pagliari (1822-1870), caduto il 20 settembre durante l'assalto alla breccia di Porta Pia delle truppe comandate dal generale Raffaele Cadorna (già distintosi nel 1859 a San Martino, quale capo di stato maggiore della 5a Divisione Cucchiari).
«Sullo sfondo, tratteggiate con mano sapiente da dense pennellate di colore, le possenti mura della città emergono dalle nuvole di fumo dell’artiglieria. Sulla destra un gruppo di giovanissimi, eccitati, bersaglieri si dirige verso lo squarcio, attraverso il quale si intravede appena il verde di alcuni alberi. Gli zaini sulle spalle, la piuma dritta sui berretti, seguono il suono delle trombe, i cui riflessi dorati squillano tra i toni più pacati delle divise come squillerebbe, se potessimo sentirlo, il loro richiamo. Alcuni dei giovani si voltano indietro, altri osservano colpiti la scena che si sta svolgendo sulla sinistra, nel vuoto lasciato dal drammatico interrompersi dell’azione: qui alcuni bersaglieri sostengono il giovane maresciallo cremonese che, seppur colpito e morente, trova tuttavia la forza di indicare la breccia, spronando i compagni ad avanzare. All’estrema sinistra, lo stato maggiore dell’esercito osserva, mestamente, circondato da bandiere tricolori. Tutto intorno, il biancheggiare delle pietre delle fortificazioni incornicia la scena con solennità; in primissimo piano un soldato è intento a fasciarsi accuratamente la gamba ferita; lo sguardo dello spettatore si posa impotente sulle figure dei caduti. Anche in quest’ultima realizzazione il giovane Vizzotto Alberti si dimostra ben capace di comporre sulla grande dimensione una complessa scena di battaglia, mescolando con sapienza naturalismo, narrazione e celebrazione» (Silvia Regonelli, Gli affreschi di San Martino della Battaglia. Il Risorgimento dipinto nel ciclo della Gran Torre, Torino, Allemandi & C. 2011, p. 40 | app.solferinoesanmartino.it | Leggi pdf).
Conviene - per esigenze di contestualizzazione fra le opere dei diversi pittori impegnati nella decorazione della Torre monumentale e per interesse verso le loro singole opere - ricordare anche gli affreschi dell'amico coautore Vincenzo De Stefani e di Vittorio Emanuele Bressanin.
Studi di soldati
Studio di bersagliere
Cavallo che si abbevera
Lungo il percorso, tra la terza e la quarta sala e tra la quarta e la quinta, Vincenzo de Stefani e Giuseppe Vizzotto Alberti hanno realizzato insieme due serie, ciascuna di dieci Ritratti di uniformi dell'Armata Sarda del 1859, «tratti da modelli ad acquerello forniti dall'illustratore imolese Quinto Cenni e tratteggiati con pennellate asciutte, pulite, attente a rendere ogni figura con la necessaria chiarezza descrittiva e cromatica» (Silvia Regonelli, Gli affreschi di San Martino della Battaglia..., cit., p. 39).
Tenente Generale
Corpo di Stato Maggiore. Capitano
Brigata Granatieri di Sardegna. Maggiore
Brigata Savoja 1° Fanteria. 1a Divisione. Capitano
Corpo sanitario. Tenente Medico
Corpo del Treno. Sergente
Guide. Caporale
I dieci ritratti della seconda serie furono completati a ridosso (e in parte anche in seguito) dell’inaugurazione del 1893:
Cavalleggeri Monteferrato. Furiere Maggiore 1859
Cavalleggeri Saluzzo. Soldato 1859
Corpo Artiglieria. Furiere Maggiore 1859
Brigata Cuneo 7.8. Fanteria 3. Divisione - Sottotenente Porta bandiera 1859
Bersaglieri - Ufficiale inferiore 1859
Brigata Pinerolo 14. Fanteria 3. Divisione - Sottotenente 1859
Brigata Acqui 18. Fanteria Divisione Gialla - Sergente 1859
Brigata Piemonte 4° Fanteria - Tenente Aiutante Maggiore in 2a 1859
R.R. Carabinieri a cavallo - Soldati 1859
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L'11 marzo 1896 il Consiglio provinciale di Venezia aveva approvato l'affidamento della decorazione del soffitto nella sala per le adunanze di Palazzo Corner della Ca' Granda (allora sede della prefettura e del Consiglio provinciale stesso) a Giuseppe Vizzotto Alberti e Vincenzo De Stefani, in base alle risultanze dell'apposito precedente Convegno del 7 marzo: «Il soffitto sarà decorato a lacunari dipinti, incorniciati in legno a rilievo a seconda delle sezioni che risultano dai tipi suaccennati. Nello scomparto dei cassettoni risulterà un quadro centrale di mt 5,50 per mt 2,30 e quattro rotondi del diametro di mt 1,70. Il soggetto di questi quadri sarà allegorico alla grandezza morale di Venezia, al suo dominio, alla sua virtù di governo. La trabeazione sarà essa pure in legno a rilievo, ornata nelle sue membrature col fregio scompartito a mensole di sostegno del gocciolatoio, pur esse in legno e negli scomparti fra le mensole stesse verranno dipinti degli emblemi, e stemmi dell’antico Dogato e dell’attuale Provincia».
Nel “Convegno” era stato descritto anche come doveva essere realizzata la decorazione della sala nel fregio sotto la cornice e che cosa avrebbe dovuto rappresentare il fregio, che però non sarà attuato secondo quelle indicazioni: «All’ingiro della sala, sotto la cornice, ricorrerà un grandioso fregio storico diviso in sette scomparti (tre nella parete tramontana e due per ciascuna delle due pareti minori) divisi da altrettanti pilastrini e rappresentanti detti quadri sette fatti dei più salienti della storia di Venezia. Le pareti avranno un tono intiero di tinta neutra che richiamerà le fasce del soffitto. (...) Tutte le dipinture saranno eseguite ad encausto e non a tempera».
Il 16 aprile i due pittori stipulavano con l'Ufficio Tecnico il verbale di consegna per i lavori.
Il soffitto della sala delle adunanze del Consiglio provinciale «accoglie nel centro un dipinto ad olio su tela rettangolare che raffigura Venezia protettrice delle Arti, dell’Industria, dell’Agricoltura e delle Scienze, in cui l’allegoria di Venezia, rappresentata come una solenne figura femminile vestita d’oro e avvolta di un ampio mantello, sta ritta al vertice di una scalinata. La circondano, a renderle omaggio, varie figure maschili e femminili, impersonificazioni delle Arti, dell’Industria, dall’Agricoltura e delle Scienze. Lo stile che contraddistingue l’opera, se da un lato rivela ancora ben chiare radici nella pittura storico-accademica alla Hayez, dall’altro prefigura già la leggiadria del Liberty, stile che in quegli anni stava ormai dilagando in tutta Europa. Gli artisti qui danno inoltre prova di grandi capacità tecniche e assoluta destrezza nella prospettiva e nel gioco di luci e ombre: la scalinata è dipinta con un effetto trompe-l’œil, che induce l’osservatore a vederla in tridimensionalità e, percorrendo la sala tenendo lo sguardo al soffitto, la scala pare “seguire” lo spettatore» (Caʼ Corner La Caʼ Granda. Itinerario tra ieri ed oggi, Testi di Patrizia Lucchi, Anna Pietropolli, Città metropolitana di Venezia, s.d., pp. 29-33 | web.provincia.venezia.it)
La decorazione del soffitto è completata dai quattro tondi con Allegorie che rappresentano le virtù e i domini di Venezia dogale, impersonificate e impersonificati da altrettante figure: La Giustizia e La Sapienza, in corrispondenza ai lati maggiori del quadro centrale, Il Mare e La Terra, ai lati minori. I tondi sono inscritti entro una cornice circolare minutamente dipinta, a sua volta entro un quadrato. Ogni cornice circolare riporta un motto in latino riferito alla Allegoria contenuta. I due artisti hanno si sono misurati con «schemi decorativi “classici”», in particolar modo le «strutture decorative del Palazzo Ducale».
Lungo tre lati della della sala del Consiglio provinciale, nella parte alta delle pareti, subito sotto il soffitto, corre senza interruzioni per 42 metri un fregio dipinto ad affresco eseguito a quattro mani dal Vizzotto con Vincenzo De Stefani, che rappresenta una delle processioni che il Doge Giovanni Mocenigo (1478-1485), il Clero e le varie Magistrature di Venezia solevano fare nelle ricorrenze di solennità civili ed ecclesiastiche.
Nella sequenza dei personaggi raffigurati, antefatto per l'ispirazione dei due artisti poterono essere:
Dettagliata era anche la memoria grafica di una di queste processioni lasciata da Giacomo Franco nell'opera Habiti d'Huomeni et Donne Venetiane con la Processione della Serma. Signoria et altri particolari cioè Trionfi Feste et Cerimonie Publiche della Nobilissima Città di Venetia, 1610 ca. (→ gallica.bnf.fr)
«La processione si svolgeva nella Domenica delle Palme, ma anche nella festa del Corpus Domini ed in altre occasioni solenni. Il Doge era il simbolo vivente della dignità e della magnificenza dello stato. Il doge portava in capo un corno d’uso, sopra al camauro, o rensa, una sorta di caratteristica cuffietta di tela di Reims. Il “corno” portato in parata è quello col quale il Doge viene incoronato, dopo essere stato eletto, in cima alla scala dei Giganti del Palazzo Ducale e che indossa una sola volta all’anno, il giorno di Pasqua. La corona dogale è un esemplare preziosissimo tempestato di gemme: è talmente unico e ricco che a Venezia veniva chiamato la “Zogia”, il gioiello per antonomasia.
Comparando la raffigurazione della processione presente nell’incisione del Pagan con quella realizzata nel fregio di Ca’ Corner emerge che l’unico personaggio di assoluta invenzione è il turco che si trova proprio sotto al cartiglio con la firma del Vizzotto Alberti. Forse si tratta dell’autore stesso che – con le braccia spalancate – presenta al pubblico la sua opera» (Caʼ Corner La Caʼ Granda. Itinerario tra ieri ed oggi, Testi di Patrizia Lucchi, Anna Pietropolli, Città metropolitana di Venezia, s.d., pp. 31-32 | web.provincia.venezia.it)
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«La Sala della Nave fu ideata dall’on. conte Piero Foscari e dal pittore Vizzotto Alberti - al quale si devono il bel pannello “Le espansioni commerciali e coloniali di Venezia” e quello “Venezia navale vittoriosa in guerra” - e fu allestita dall’ing. conte Colombini» (Gino Cucchetti, L’Arte Veneta all’Esposizione di Roma. Il padiglione veneto alla mostra etnografica, in Le Esposizioni del 1911. Torino, Roma, Firenze, p. 309-314 | ia802809.us.archive.org/esposizionidel1911
I sovrani inaugurano il Padiglione veneto
Interno del Padiglione veneto dopo l’inaugurazione
Angoli di Venezia ricostruiti all’Esposizione di Roma
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