Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
[a. m.] L'ultimo numero (IV-2022) della rivista liventina di cultura “La nuova Castella” è interamente dedicato alla figura di Nicola di Myra (IV secolo), il San Nicolò patrono della città di Motta di Livenza e «santo "ideale" – secondo le parole del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, nella prefazione – per riunire Oriente e Occidente». Fresca di pubblicazione, l'incontro di presentazione all'inizio di novembre è stato voluto proprio nel tempio mottense a lui intitolato. Mario Po', direttore editoriale della rivista, che ha condotto la serata, dopo l'introduzione di mons. Vittorino Battistella, arciprete di Motta, presentando i vari saggi raccolti nella monografia ne ha enfatizzato la validità quasi come «operazione identitaria» volta a fornire «una luce finalmente valorizzante al nostro santo, al rilievo e al significato della dedicazione mottense che d'ora in poi potremo decisamente amare di più». È un'accentuazione, quella del curatore, che si allinea al giudizio e all'augurio - per la comunità cristiana - che si ricava dai testi introduttivi sia del patriarca di Venezia Francesco Moraglia sia del vescovo di Vittorio Veneto Corrado Pizziolo.
In verità, anche chi non sia convinto di dover ricavare anacronisticamente ispirazione "identitaria" dal culto delle reliquie del santo e sia scettico sulla storicità della biografia e dei poteri taumaturgici, può apprezzare il contributo di studio e approfondimento sulla storia e la devozione di uno dei santi dei primi secoli del cristianesimo «più amati e venerati dalle chiese cristiane», il cui culto ha attraversato la sensibilità religiosa di moltissime generazioni ed ha grande "popolarità" anche nel Triveneto e in particolare in alcuni nostri territori vicini, ma anche nell'Oriente ortodosso, oltre che in Europa, e in diverse altre confessioni cristiane. San Nicola, peraltro, sarebbe «il santo che ha goduto nella vita della Chiesa il culto più esteso, dopo quello della Beata Vergine Maria» (P. Gerardo Cioffari OP, San Nicola, Basilica pontificia di San Nicola - Bari). Rapportarsi alle specifiche forme di presenza e persistenza del sacro è operazione tutt'altro che accessoria e superflua: (se mi perdonate l'autocitazione da un precedente articolo sui "Santi del mese") «Li può apprezzare sia chi è sensibile all’apologetica cristiana e alle virtù morali e anagogiche esemplificate dalle vite dei santi, sia chi si interessa alla dimensione antropologica, simbolica, iconografica e artistica di questo culto, come significativa componente della cultura di genti e luoghi».
Sotto entrambe le prospettive, questo numero della Nuova Castella ha perciò buoni motivi per farsi leggere.
In apertura di rivista, a Stenio Odonti, presidente dell’associazione culturale “Girolamo Aleandro”, promotrice della Nuova Castella, sembra appropriato richiamare anche il “parallelismo” tra Girolamo Aleandro da Motta, il nunzio papale inviato a Worms nel Palatinato per confutare le dottrine protestanti di Martin Luther (1521), e il vescovo di Myra, combattivo difensore dell’ortodossia contro l’eresia ariana al Concilio di Nicea (325): «Forse, viene da pensare che il Duomo fu dedicato a San Nicolò non a caso, ed è proprio quella la chiesa che fu fortemente voluta dal cardinale Aleandro».
L'articolazione della ricerca è stata affidata ad un nutrito gruppo di studiosi, in maggior parte religiosi.
Il saggio di Giorgio Maschio (Facoltà Teologica del Triveneto a Padova) s'incentra sul pensiero teologico di san Nicolò (Nicea, il concilio e la posta in gioco); il frate domenicano Alessandro Cavallo analizza com'è stato rappresentato il santo (L'iconografia di San Nicola); Athenagoras Fasiolo (archimandrita della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia) ripercorre il culto di San Nicolò di Myra nella tradizione della Chiesa Orientale; Michele Bellino (Centro Studi Storici della Chiesa di Bari) focalizza il valore del pellegrinaggio (San Nicola: Bari e l'Oriente nello sguardo di un pellegrino); padre Ludovico Secco ofm ci porta Sulle tracce delle reliquie nicolaiane.
Gli apporti "laici" sono quello di Pier Alvise Zorzi che approfondisce il culto di San Nicolò a Venezia (città che conserva parte del suo corpo) e quello di Giampiero Rorato che vaglia i documenti storici per comprendere le ragioni che hanno decretato San Nicolò, titolare del duomo di Motta.
Ad ampliamento del discorso sul culto locale di San Nicolò, Mario Po' (Appunti del diario di viaggio del 4-5 dicembre 2021) descrive la traslazione via acqua della reliquia, dopo 920 anni della sua presenza a Venezia, fino al porto fluviale di Motta, e poi chiarisce il tema raccontato nell’iconografia nicolaiana presente nelle chiese mottensi, che soprattutto nei dipinti cinquecenteschi di Pietro Malombra e Francesco Bassano rivela una duplice tradizione: quella bizantina (che vede nel vescovo di Myra il teologo difensore della duplice natura di Cristo) e quella veneziana (che affida al santo, protettore dei naviganti, «la dimensione della salvezza e della salute, della Grazia e della medicina»).
Guido di Pietro, detto Beato Angelico, Storie di S. Nicola di Bari, 1437 ca. | Tempera su tavola, cm 35 x 61,5 ciascun pannello | Musei Vaticani, Pinacoteca | https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/1000016151-0
Ambrogio Lorenzetti, Il miracolo delle navi granarie - San Nicola resuscita un fanciullo, Uffizi, Firenze | uffizi.it/.../lorenzetti-storie-di-san-nicola
Bartolomeo Vivarini, San Nicola
Il libro recente di Guerrino Lovato e Pino Usicco (la Toletta Edizioni, 2022) racconta chi sono i personaggi raffigurati nelle sculture e nei bassorilievi scolpiti negli archi delle Procuratie e della Marciana (e i loro significati spesso dimenticati o sconosciuti).
Presentazione, a Treviso, con gli autori, mercoledì 7 dicembre, ore 17, presso palazzo Rinaldi, Sala Verde.
Domenica 4 dicembre, ore 15 | Oderzo, Sala del Campanile
[a. m.] La levatrice incredula nella leggenda della Natività è il libro di Guerrino Lovato (iconologo e studioso del '500, scenografo e scultore) che verrà presentato dall'autore stesso domenica 4 dicembre p.v. alle ore 15 presso la Sala del Campanile del Duomo di Oderzo.
È un incontro - immaginiamo - pensato in sintonia con il periodo liturgico dell'anno che i credenti si apprestano a vivere (siamo alla seconda domenica di Avvento), ma - piacevolmente stupendoci - propone come tema a proposito della Natività non la narrazione dei vangeli canonici, ma quella dei vangeli apocrifi, riportata per alcuni secoli nelle immagini sacre dedicate alla Natività: la ragionevole umana «incredulità» sul parto virginale di Maria.
Partiamo dal dipinto scelto come copertina da Guerrino Lovato, la Natività di Lorenzo Lotto, esposta nella Pinacoteca nazionale di Siena.
Perché una donna mostra le mani invalide a Maria nella grotta di Betlemme?
Questa storia si è persa nel tempo e non viene quasi più raccontata, ma esistono diverse rappresentazioni sacre nelle quali è ricordata.
A Betlemme, Giuseppe si muove alla ricerca di una levatrice che aiuti Maria ormai prossima al parto, ma dopo averla trovata arrivano alla grotta già avvolta da una nube splendente, quando Gesù è ormai nato. La donna si accorge della verginità di Maria e leva stupita un inno alla nascita prodigiosa. Uscita dalla grotta, incontra un’amica, pure levatrice, Salome, rivelandole l’evento miracoloso, ma questa si rifiuta di credere che una vergine possa aver generato un figlio, e vuole constatare di persona. Entrate insieme nella grotta, quando Salomè protende il dito verso Maria per ispezionare la vagina, la mano immediatamente le si stacca, bruciata. Mentre implora subito perdono a Dio, maledicendo la propria iniquità e incredulità, appare un angelo che, rassicurandola che il Signore l'ha esaudita, la invita ad avvicinare la mano al bambino e a prenderlo in braccio. L’incredula, pentita, compie l’amorevole gesto suggeritole dall’angelo e subito viene risanata.
Le parole di Salome («Se non ci metto il dito e non esamino la sua natura, non crederò mai che una vergine abbia partorito») anticipano l'altro memorabile atto di incredulità (che leggiamo nel Vangelo canonico di Giovanni, XX, 24-29[1]) a causa del quale è rimasto proverbialmente stimmatizzato l'apostolo Tommaso, quando incontra il Risorto che gli rivolge queste parole: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Il riconoscimento finalmente da parte di Tommaso («Mio Signore e mio Dio»), non gli evita l'ammonimento da parte del Risorto: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati coloro che non videro e tuttavia credettero!».
Si tratta, nell'un caso come nell'altro, di un dubbio sui due fondamenti capitali del cristianesimo: la nascita di Dio da madre umana e la Resurrezione di Gesù.
L'episodio della Salome "levatrice incredula" (non l'omonima danzatrice, figlia di Erodiade, che fu fatale a Giovanni Battista) si trova narrato nel cosiddetto Protovangelo di Giacomo[2] (XIX, 1-3; XX, 1-4), noto anche come Vangelo dell'infanzia. Fu rifuso nell'alto medievale Vangelo dello Pseudo-Matteo[3] e poi ripreso alla fine del XIII secolo da Jacopo da Varagine nella Legenda Aurea[4].
Nel Protovangelo di Giacomo così se ne narra:
Nello Pseudo-Matteo (poco più che un riadattamento del materiale contenuto nel Protovangelo di Giacomo e nel Vangelo dell'infanzia di Tommaso, opere entrambe databili al II secolo) la storia si arricchisce di dettagli esplicativi ed enfatizza proprio la figura di Salome:
Nella Legenda aurea, Jacopo da Varagine rifonde quanto si ricava dai vangeli apocrifi, in particolare appunto dal Protovangelo di Giacomo e lo Pseudo-Matteo:
Il Protovangelo di Giacomo (il più antico fra i vangeli apocrifi, composto in lingua greca probabilmente verso il 140-170 d. C.), pur non essendo dunque incluso in alcun canone biblico, è quello che tuttavia ha esercitato la maggiore influenza sulla teologia e sull'arte, sia in Oriente che in Occidente. Molte delle "informazioni" in esso contenute sono state sostanzialmente accettate e assunte dalla tradizione cristiana "ufficiale" (la raffigurazione di Giuseppe come un uomo anziano; le notizie sulla vita di Maria e dei suoi genitori Anna e Gioacchino; la tradizione che vuole la nascita di Cristo in una grotta; la tesi della verginità di Maria, prima, durante e dopo la nascita di Gesù[5]...) e i suoi temi sono spesso riecheggiati nell'iconografia cristiana.
L'immagine della levatrice incredula, in particolare, si può ritrovare in una scultura nel ciborio di San Marco a Venezia che mostra Salomè nella nicchia centrale, in ginocchio, mentre porge la mano malata e guarda con fare supplice il bambinello; in uno dei più noti tra gli affreschi di Giotto della cappella degli Scrovegni di Padova nel quale Salomè è accanto alla Vergine che sta sollevando il bimbo in fasce perché lei possa toccarlo; nella già citata Natività di Lorenzo Lotto; nella pala dell'Adorazione dei pastori di Pietro Paolo Rubens conservata alla pinacoteca di Fermo che raffigura la levatrice come una vecchia velata di bianco che mostra le mani colpevoli alla Madonna invocando la guarigione (ultima volta, e siamo all'inizio del Seicento, che l'arte sacra riproduce il miracolo della levatrice che dubitò del prodigio) ...
L'apporto di Guerrino Lovato sta principalmente nel proporre i numerosi casi di individuazione di questo particolare evento che finora la critica d'arte ufficiale non aveva segnalato. Nel libro sono riportati una cinquantina di esempi e molti di essi sono rilevazioni del tutto inedite.
Fra le interpretazioni più significative dell’episodio, si ricorda la Natività del 1425 del pittore fiammingo Robert Campin (1375-1444), noto anche come "Maestro di Flémalle" o "Maestro di Mérode".
La scena della Natività illustrata da Campin si articola attraverso tre momenti diversi: la Natività vera e propria, l’Adorazione dei pastori e la vicenda della levatrice incredula. Le scritte sui tre cartigli ricordano i vari momenti dell’episodio.
Lo stupore per l’evento miracoloso della prima levatrice accorsa è ricordato dalla scritta: «Virgo peperit filium», una vergine ha partorito un figlio.
L’incredulità di Salomè, che vorrebbe verificare la verginità di Maria, dalla scritta: «Nullum credam quin probavero», crederò solo a quello che avrò toccato.
Il suggerimento dall’angelo per essere risanata dalla scritta: «Tange puerum et sanaberis», prendi in braccio il bambino e sarai guarita.
Sul sacro evento, seminascosto sullo sfondo, tuttavia ben visibile («caratteristica tipica della pittura fiamminga quattrocentesca, che qui ben traduce la complessa simbologia della luce del Protovangelo di Giacomo» ← letteraturaalfemminile.it), s’affaccia il sole nascente, emblema di Cristo, il "nuovo Sole" della Giustizia e della Verità.
La Vergine mostra il suo bambino ai pastori. Alle sue spalle sta San Giuseppe e a sinistra della composizione due figure maschili e due figure femminili. La figura femminile anziana è identificabile come la levatrice incredula del protovangelo di Giacomo, nell’atto di alzare al cielo le mani sanate. Un turbinio di quattro angeli sorregge un cartiglio con l’annuncio della nascita del Salvatore.
Vi invito a leggere - se non l'avete già fatto gli scorsi anni - gli spunti presenti negli articoli già pubblicati in locusglobus:
Dal 16 settembre 2002 al 15 gennaio 2023 sarà aperta al Museo Santa Caterina di Treviso la grande mostra (rinviata a causa delle restrizioni anticovid della primavera scorsa) “PARIS BORDON 1500-1571. PITTORE DIVINO”.
Al "Divin Pitor" (come lo definiva lo storiografo veneziano Marco Boschini col termine usato solo per Raffaello e Tiziano) è dedicata la più ampia monografica mai realizzata finora, riunendo i capolavori dell'allievo di Tiziano provenienti dai più prestigiosi musei del mondo: l’Ermitage di San Pietroburgo, la National Gallery di Londra, il Louvre di Parigi, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, l’Ashmolean Museum di Oxford, le Gallerie degli Uffizi di Firenze e i Musei Vaticani...
La rassegna ne racconterà la varietà e la ricchezza della produzione attraverso i suoi sensuali ritratti femminili – dai primi, fortemente influenzati da Palma il Vecchio e Tiziano a quelli più tardi segnati da un sofisticato manierismo – attraverso le rappresentazioni mitologiche, le splendide allegorie, le scene sacre delle grandi pale d’altare e le piccole opere destinate alla devozione privata. In occasione dell’esposizione verrà, inoltre, appositamente restaurata la monumentale pala d’altare San Giorgio e il drago, proveniente dai Musei Vaticani.
A completamento della visita, un itinerario di confronti e rimandi, inviterà a riscoprire capolavori disseminati all’interno del territorio trevigiano e veneto come la meravigliosa Consegna dell’anello al doge di Paris Bordon, conservata alle Gallerie dell’Accademia di Venezia.
La mostra è accompagnata dal catalogo edito da Marsilio Arte | marsilioeditori.it/.../paris-bordon-pittore-divino
Il sito della mostra: mostraparisbordon.it
AGNOLET Giovanni Battista, ARGENTON Francesco, BIANCO Giovanni, BORASO Angelo, BOZZO Antonio, BRAVIN Luigi, BUFFOLO Nicolò, CALIMAN Bortolo, DAL BEN Giovanni, DAL BEN Giuseppe, DE BIANCHI Emilio, FREGONESE Enrico, MOMI Giuseppe, NARDO Eugenio (Piavon), PICCOLO Luigi, SPADOTTO Luigi, STORTO Aurelio (Piavon), VAZZOLER Luigi, VIDOTTO Pietro, ZANARDO Pietro (Piavon): sono i nomi dei 20 soldati opitergini del 55° Reggimento fanteria “Marche” morti nella più grave tragedia navale italiana, l’affondamento del piroscafo “Principe Umberto”, l’8 giugno 1916, silurato dal sommergibile austroungarico U5 al largo di capo Linguetta nelle acque albanesi del canale d’Otranto, mentre il naviglio era in trasferimento marittimo dall'Albania al fronte dell'Isonzo.
Si contarono soltanto 895 sopravvissuti, mentre 1926 furono le vittime: 110 marinai dell’equipaggio, 52 ufficiali e 1764 soldati del 55° Reggimento fanteria “Marche”, di cui 521 soldati provenienti dal trevigiano. Tra loro c'erano, oltre ai 20 di Oderzo già citati,
E così via. Per giorni e giorni il mare restituì alla spiaggia di Valona corpi straziati e irriconoscibili di marinai e fanti italiani che vennero sepolti senza nome ai bordi della strada che da Valona sale verso Kanina.
L'occasione per riportare alla memoria questa immane tragedia a 106 anni di distanza è la certezza che la nave, localizzata dall'ingegnere italo-svizzero Guido Gay - esploratore di abissi in cerca di relitti - e successivamente raggiunta a 930 metri di profondità da un mezzo sottomarino robotizzato che ne ha permesso l’identificazione, sia proprio quel che resta della “Principe Umberto". «Con il sonar», ha spiegato Guido Gay, «abbiamo individuato la presenza del relitto già al primo passaggio, circa un mese fa. Le caratteristiche del relitto, addirittura con un fianco che sporgeva dal fondo, rilevate dal sonar ci davano la quasi certezza che si trattasse proprio di quella nave. L’identificazione visiva è stata effettuata la settimana scorsa. Siamo tornati sul posto qualche giorno dopo il rilevamento sonar, ma ci siamo scontrati con le forti correnti dal canale d’Otranto. Per due volte non siamo riusciti a far scendere in profondità il robot sottomarino, una volta ha raggiunto il fondo, ma è finito lontano dall’area dove il sonar aveva rilevato la massa metallica. Finalmente, il quarto tentativo è stato quello buono: il robot è riuscito a raggiungere il relitto e a ispezionarlo, scattando le immagini che ci hanno dato la certezza dell’identificazione».
Il numero 7 della rivista Archivio Storico Cenedese è stampato, disponibile in prevendita sul sito ascenedese.it/.../asc-7 e da metà giugno anche in libreria.
Un po' di attesa è stata necessaria anche quest'anno, come lo scorso, a causa delle difficoltà di accedere ad archivi e documenti incontrate durante le emergenze covid. Ora il nuovo numero potrà essere nelle mani dei lettori, in previsione di essere anche presentato in alcuni incontri pubblici nel Vittoriese e nell'Opitergino dopo l'estate.
Vi anticipiamo intanto il sommario degli Studi&Ricerche e delle Comunicazioni presenti:
Completano il numero alcune "Brevi" di Manoel Maronese (Un nuovo testimone dell'ode di Giambattista Amalteo per Giovanni d'Austria) e Giampaolo Zagonel (Omaggio a Dino Buzzati nel 50° anniversario della scomparsa) e alcune "Recensioni".
È recentissima (di febbraio 2022) la ristampa di un aureo libretto di Piero Brunello, Acquasanta e verderame, uscito la prima volta nel 1996 da Cierre edizioni. Con modifiche e aggiornamenti e una rifusione dei testi in nuovi paragrafi e capitoli, la riedizione porta ora il titolo Lo zolfo e l'acquasanta. Parroci agronomi in Veneto e in Friuli nel periodo austriaco (1814-1866).
L'importanza dei legami simbolici tra sacro e fertilità nelle società rurali è questione assodata. Nessuna sorpresa che anche nel Veneto rurale «le scadenze del lavoro contadino fossero segnate dalla devozione ai santi e dal calendario della Chiesa cattolica, e che il buon esito dei raccolti fosse affidato alle benedizioni del clero e alle processioni nei campi. Oltre ad allontanare malattie e avversità atmosferiche, i riti propiziatori, che si svolgevano ai confini dei poderi e davanti ai capitelli, rafforzavano simbolicamente le proprietà e le gerarchie sociali».
Nuovo è il fatto che rispetto ad innovazioni tecnologiche e moderne pratiche agronomiche, come quelle introdotte almeno a partire dalla seconda metà del Settecento, fu il parroco ad essere «il mediatore più adatto» anche per insegnare le materie agronomiche, senza che fosse sentito in contrasto «con le credenze magiche – e con esse l'ordine sociale, morale e religioso tradizionale». Il parroco, conoscitore sia del "dizionario del cittadino” sia di quello “del contadino”, spesso proveniente lui stesso dalla campagna, «impartiva nozioni utili alle tecniche agricole e allo stesso tempo norme di comportamento morale; insegnava cioè non solo come dar zolfo alle viti ma anche come le donne di campagna dovessero vestirsi e come i poveri dovessero trattare i ricchi (e viceversa)».
L'argomento del libro è dunque questo interesse dei parroci di campagna all’agricoltura e ai miglioramenti agricoli, nel contesto delle province venete e friulane che fecero parte del Lombardo Veneto austriaco, dopo esser dipese «dal governo di Venezia che, in tema di rapporti tra stato e chiesa, aveva una tradizione politica diversa dalle regioni confinanti».
«Era normale che un parroco si tenesse informato sulle novità nel campo degli aratri, delle rotazioni, dell’allevamento dei bachi da seta, dei rimedi contro la malattia della vite? Data la grande distanza tra città e campagna, chi insegnava ai contadini a mettere in pratica i suggerimenti e le scoperte degli agronomi? E infine, dal momento che ai contadini era stato insegnato che buono e cattivo tempo, raccolti abbondanti e carestie, piogge e siccità, tutto veniva da Dio, in che modo potevano accettare di combattere con lo zolfo un castigo del cielo come la crittogama?»
Brunello risponde in ognuno dei quattro capitoli del libro chiarendo un aspetto particolare.
Il primo capitolo offre una messa a punto del ruolo del parroco. Nel Lombardo Veneto, «oltre a essere ministro del culto, è anche un funzionario statale: in pratica deve mediare tra sudditi e autorità politiche» e gode di entrate economiche che gli consentono «qualche margine di autonomia sia dallo Stato che dai signorotti del paese». Nello svolgimento di questi compiti "politici", l’atteggiamento del clero cambia nel corso del tempo «dalla tradizionale fedeltà all’autorità politica – prima Venezia, poi Vienna – all’obbedienza al papatoNota 1, dopo l'Unità, e ad una visione «antistatale e antiliberale», di fine secolo. Prima il ruolo del clero nelle campagne è legittimato dalle autorità civili, poi fu assicurato «dall’organizzazione centralistica del clericalismo intransigente che fa capo a Roma».
Nel secondo capitolo Brunello esamina il ruolo di tali parroci di campagna – stretti «tra la religione popolare che li vuole stregoni e la gerarchia ecclesiastica che invece vuole distinguere nettamente religione da magia» – e delinea il loro atteggiamento nei confronti dei parrocchiani «che chiedono benedizioni contro qualsiasi disgrazia o malattia accada ai raccolti, alle piante, ai bambini, alle donne, agli animali del cortile e della stalla».
Il terzo capitolo è dedicato alla figura di Lorenzo CricoNota 2, parroco di Fossalunga nel Trevigiano, che scrisse molto su argomenti attinenti all’agricoltura e ben si presta ad esemplificare l'argomento trattato.
«Che cosa sta a cuore a un parroco agronomo? Con chi parla, e di che cosa? Parla con uomini, con donne, con capifamiglia, con giovani, con proprietari, con contadini o con artigiani? E che cosa consiglia? Quale atteggiamento assume con i contadini e con il proprietario? Ha paura delle innovazioni o cerca di imporle? Ed eventualmente come mette assieme le novità tecniche ed agronomiche con la salvaguardia dei comportamenti che egli ritiene "antichi" e "tradizionali"?»
Poiché l'attivismo culturale del Crico non è un'esperienza isolata, ma interna al grande interesse per l’agricoltura diffusosi a partire dagli anni quaranta dell’Ottocento in Veneto e in Friuli (in verità fenomeno non solo locale, ma europeo), l'autore mostra quanto si può cogliere «nei giornali, nei discorsi in pubblico e nei salotti, nel sorgere di nuove associazioni, nella quantità di studi, esperimenti e innovazioni tecniche che riguardano i lavori dei campi». Ne è un esempio il periodico L’amico del contadino, edito a San Vito del Tagliamento dal conte Gherardo Freschi. «È un giornale che vede nel parroco il maestro dei contadini nelle cose di agronomia. I parroci di campagna sono il pubblico del giornale; alcuni di loro mandano articoli, lettere»Nota 3.
Nell'ultima parte del libro l'attenzione si concentra sul quindicennio precedente all’Unità, periodo di brutti raccolti, della malattia della vite e del baco da seta. La conclusione è che «i parroci suggerivano le innovazioni agronomiche, come ad esempio lo zolfo contro la crittogama, senza abbandonare le benedizioni alle viti richieste dai contadini: in questo modo le novità tecniche potevano imporsi senza sminuire il ruolo del clero nei paesi, né compromettere gli equilibri sociali e i ruoli di genere». In termini storiografici viene sfatato che l’immagine della società contadina presentata nell’Ottocento «sia il riflesso di una realtà esistente», trattandosi invece di «uno schema retorico sul quale fondare la prescrizione di regole e di norme di comportamento».
In Appendice, Brunello riassume le prime due sezioni dei dialoghi di monsignor Lorenzo Crico, Il contadino istruito dal suo parroco, pubblicate a Venezia nel 1817, rispettivamente dedicate all’Economia domestica e all’Economia rustica, e aggiunge – rispetto alla prima edizione – una relazione tenuta presso il Dipartimento di studi storici, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dal titolo Il parroco nel Lombardo Veneto. Lettera a Demir Mustafà, rom macedone.
Dalla propria ricerca l'autore crede possibile ricavare, tra le altre cose, anche un contributo che possa spiegare meglio «il perdurare di equilibri sociali e di mentalità diffuse nei distretti industriali sorti in Veneto dopo la fine del mondo contadino».
[Le citazioni virgolettate sono tratte dall'Introduzione di Piero Brunello | edizioni.cierrenet.it/.../lo-zolfo-e-lacquasanta]
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Angelo Natale Talier (1744-1818)
Lorenzo Crico (Noventa di Piave, 1764 – Venezia, 1835)
Giovanni Rizzo (Altichiero - Padova, 1825 - Salboro, 1902)
[1869] Catechismo agricolo ad uso dei contadini compilato dal parroco d. Gio. cav. Rizzo, con due appendici su alcuni pregiudizi dei contadini e sulle misure e pesi metrici, Coi tipi del Seminario, Padova, 1869 | Ristampa anastatica, Padova 2003, a cura di Lino Scalco | Ristampa, Panda Edizioni, 2012 | Reperibilità: amazon.it/Catechismo-agricolo-uso-dei-contadini
Non sono diventato improvvisamente venetista. La tradizione può restare fattore culturale anche senza nostalgie passatiste, superate dalla storia, e la conoscenza di elementi culturali caratterizzanti della propria storia passata è foriera di consapevolezza anche per il presente.
"Bon cao de ano" ricorda un calcolo arcaico del ciclo annuale che si faceva cominciare con la fine della stagione più fredda e l'imminente arrivo della primavera che portava al risveglio della natura, ad un nuovo inizio.
All’epoca della Serenissima, l’anno iniziava il primo marzo, non il primo gennaio come indicato dal calendario giuliano (riformato da Giulio Cesare) e poi gregoriano. Se si iniziano a contare i mesi da marzo, diventa comprensibile perché il settimo, l'ottavo, il nono e il decimo mese dell'anno conservino il nome latino di September, October, November e December. Il quinto e il sesto (originariamente Quintilis e Sextilis) erano diventati Julius e Augustus in onore di Cesare e di Augusto.
Molti antichi documenti veneziani riportano perciò la data accompagnata dalla sigla m.v. (more veneto) per specificare come il calendario fosse "secondo l'usanza veneta". La dicitura continuò ad essere usata ufficialmente fino alla caduta del XVIII secolo, anche dopo l'uniformazione alla riforma gregoriana (1582) del calendario, per non confondere i due sistemi: ad esempio, iniziando l’anno il primo marzo, il gennaio 1582 "more veneto", corrispondeva al gennaio 1583 del calendario gregoriano.
Vegnì fora zente, vegnì
vegnì in strada a far casoto,
a bàtare Marso co coerci, tece e pignate!
A la Natura dovemo farghe corajo, sigando e cantando,
par svejar fora i spiriti de la tera!
Vegnì fora tuti bei e bruti.
Bati, bati Marso che ‘l mato va descalso,
femo casoto fin che riva sera
e ciamemo co forsa ea Primavera!
Vegnì fora zente, vegnì fora!
Venite fuori, venite
venite fuori a far confusione,
venite a battere Marzo con coperchi e pentole!
Alla natura dobbiamo far coraggio, urlando e cantando,
per svegliare gli spiriti della terra!
Venite fuori tutti, belli e brutti.
Batti, batti Marzo, che il matto gira scalzo,
facciamo confusione fino a sera
e chiamiamo con forza la primavera!
Venite fuori, venite fuori!
Il Bati Marso era una festa che accompagnava sia il Cao de ano, sia i giorni precedenti: andar in giro per le strade con pentole, coperchi e altri strumenti musicali fatti in casa battendoli e facendo una gran confusione, per scacciare l’inverno e il freddo e propiziare l’arrivo della bella stagione...
La tradizione si è mantenuta nei secoli e in alcune parti del Veneto ancora si canticchia questa filastrocca.
Un Bati Marso euganeo
[Danilo Montin | euganeamente.it/bati-marso] All’imbrunire del primo giorno di marzo s-ciàpi (gruppi) di giovani andavano per le strade dei paesi, fermandosi davanti alle case delle tose (ragazze) da sposare, e con trombe, corni, campanelli e bidoni vuoti incominciavano una diabolica sinfonia, accompagnati da urla e fisci (fischi). Terminato il baccano, il caporione della comitiva chiamava per nome la ragazza da maritare, annunciandole un buon partito, assegnandole cioè un marìo (marito). Ecco una parte della lunga filastrocca che veniva detta in tale occasione:
Ti (nome della ragazza) se non ti si al balcon,
leva suzo (su) che xe arivà un buon partito,
ma che partito che sia mi non lo so;
speta che me supia (soffia) il naso e dopo te lo dirò.
Xe qua Marso, e Marso volen che sia
de la bela ragassìa.
Qualche volta per far arrabbiare le ragazze più superbe, questi ragazzi proponevano per marito un vecio, un stùrpio o un desgrassià (un vecchio, uno storpio o uno sciancato); allora, piene di rabbia, invece d’invitare i giovani a bere un bicchiere di vino, dalle finestre buttavano giù un caìn (catino) d’acqua fredda o, peggio ancora, un vaso da notte!
* * * * *
Ho dedicato altri articoli al "Capodanno veneto". Se volete rileggerli...
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