[a. m.] L'eco della pietosa storia del cadetto ungherese Teodoro Kiss e di Caterina Vincenti si diffuse nei reggimenti austriaci di stanza allora nella Venezia, accompagnata da intensa commozione. Trovò spazio, non senza inesattezze ed enfatizzazioni, in giornali di Torino, Milano, Firenze. Sulle pagine della rivista fiorentina di ispirazione democratico-garibaldina La nuova Europa del 5 ottobre 1861, i lettori trovavano la seguente cronaca:
«A Oderzo, nel Veneto, è accaduto un fatto lagrimevole e straordinario. Un cadetto ungherese di buona famiglia s’innamorò perdutamente di una bellissima ragazza di quel paese, e ne fu da lei ricambiato. Però essendo ella onesta, non acconsentì mai ad avere secolui abboccamenti. Corrispondevano quindi per lettera. L’ultima scrittale dal giovane ungherese sempre più insisteva onde ottenere da lei un appuntamento. A questa ella rispose che due circostanze si opponevano assolutamente: l’esser ella ragazza onesta, ed egli ufficiale austriaco: che s’egli però dopo il ritrovo si sentisse la forza d'ucciderla, ella verrebbe la sera stessa al sito ch’egli le indicava. Ove egli non rispondesse a questa sua lettera, sarebbe segno del suo consentimento. L’amante non rispose, e il giorno dopo furono trovati annegati ambidue, abbracciati strettamente in un fiumicello vicino ad Oderzo. Sulla sponda l’ungherese aveva piantato la spada col fodero attraverso formante una croce, la quale era circondata da fiori. L’infelice ragazza fu ritrovata intatta».
Nel clima patriottico di recente unificazione italiana e di delusione per l'ancora irredenta Venezia, le nazionalità di appartenenza dei due giovani, accomunate dall'essere entrambe sotto il giogo dello stesso oppressore austriaco, si prestavano ad essere caricate di valori patriottici oltrepassando il puro significato di disperazione e impotenza a vivere la propria storia d'amore. Il poeta patriota piemontese, David Levi, la cantò subito in una romantica ballata intitolata Italia e Ungheria. Anche Raffaello Barbiera [← treccani.it/dizionariobiografico], a molti anni di distanza ancora non rinunciava - e siamo significativamente nel 1918 (Italiani e ungheresi... d'un giorno: gli amanti d'Oderzo, in Ricordi delle Terre Dolorose, Fratelli Treves Editori, Milano, 1918, pp. 13-25) - a risvegliare nel lettore, senza veri indizi fattuali, l'interrogativo che coniugava passione amorosa e patriottica: «Provava quell'ufficiale ungherese quei sentimenti di libertà che tanti suoi conterranei aggregati nell'esercito austriaco provavano, allora, mal soffrendo il giogo dell'Austria? Amava egli Caterina anco perché figlia d'un cospiratore, d'un nemico delle oppressioni austriache come lui?... Si pensi agli ufficiali ungheresi, che, a Milano, nella sommossa mazziniana del 6 febbraio 1853, s'erano uniti ai nostri cospiratori».
Fatto letterario quasi completamente ignorato è che il suicidio di questi amanti è stato fonte di immediata ispirazione anche per il giovane Giovanni Verga nel suo romanzo “veneto” Sulle lagune, ambientato proprio fra Venezia e Oderzo (terzo della sua prima trilogia di esordi narrativi, dopo Amore e Patria scritto fra i 16 e i 17 anni d’età, rimasto inedito, e I Carbonari della montagna, edito a spese della famiglia nel 1861-1862), pubblicato nel 1862-1863 nella rivista fiorentina La nuova Europa, la stessa rivista sopra citata dove era stato riferito e lo scrittore poté aver letto il «fatto lagrimevole e straordinario» accaduto a Oderzo, nel Veneto.
L'acme del romanzo verghiano è una variante del topos romantico “amore e morte”. I due giovani protagonisti, Giulia Collini, graziosa diciannovenne di Oderzo, e l’ufficiale Stefano De Keller, ungherese ma di sentimenti antiaustriaci, sfibrati dagli ostacoli frapposti al loro amore e convinti ormai dell’impossibilità di coronarlo, concordano un appuntamento notturno sulla laguna veneziana, col patto che egli avrebbe avuto alla fine il cuore di ucciderla. Dentro la gondola che fa da alcova, la passione degli amanti trova finalmente appagamento. Le acque sono increspate da un debole vento e rese scintillanti da una luna magnifica. «Il mare sembra gonfiarsi, come trepidando di un arcano e immenso palpito, e i raggi della luna tremolare più vividi per mischiarsi ai suoi vapori». Uno sposalizio panico e un eden sospirato celebrano anche il mare e la luna: «s’amano e son belli d’amore… anche noi ci abbracceremo come gli atomi di quelle acque e di quella luce … avremo con noi il paradiso!!...». Gli amanti si confessano di essere felici di morire insieme, per eternare il «dolce sogno» che hanno provato un istante. Scambiano l’ultimo bacio, sembrano resistere all’ultimo dubbio che potrebbe disarmare la loro forza di morire: «E se laggiù non fossimo insieme?... se ci separassero?». Giulia fa il balzo per precipitarsi fra le onde, ma - a sorpresa - Stefano spaventato l’afferra con forza convulsa e l’attira a sè. Con parole che suonano ora molto più prosaiche di quelle ebbre e ardenti fino a qualche momento prima pronunciate, invita Giulia a vivere: «È tanto bello l’amore!... e finché c’è vita c’è amore, finché si ama si spera!!». Anche in Giulia, «soffocata da singhiozzi d’amore e di giubilo», il delirio si sgonfia e, lanciatasi fra le braccia di Stefano, lo trascina sotto la felza, mentre la gondola solca le lagune verso Chioggia. Non si saprà più nulla di loro. Il narratore non conclude con la sicura morte. Tre finali evocati lasciano interrogativa la loro sorte: «Vi è chi dice che a notte inoltrata si era veduta una gondola, rimorchiata da quella dell’I.R. Polizia, approdare al Molo da dove i poliziotti avevano condotto in prigione altri sciagurati dei quali nemmeno dovea sapersi più il nome. Vi fu al contrario chi affermò di aver veduto la gondola, scampata miracolosamente per l’aiuto di un legno con bandiera italiana, approdare alla spiaggia libera di Ravenna. Altri infine dissero che i corpi dei due giovani erano stati rinvenuti in un fiumicello vicino ad Oderzo, e che la spada dell’uffiziale ungherese si era trovata sulla sponda, confitta in terra, con una corona di rose intrecciate all’elsa». Questo terzo epilogo è la citazione quasi alla lettera della cronaca giornalistica...
Amore e morte: gli amanti di Oderzo. Che cosa successe?
Per la breve riesposizione che segue ho consultato il testo di Raffaello Barbiera, già citato, che rappresenta - credo - la fonte usata da tutti coloro che ne hanno scritto successivamente e afferma di basarsi su documenti e dati ufficiali «favoritigli dal comm. Gasparinetti, già sindaco d'Oderzo, che aggiunse informazioni della propria consorte, cugina di Caterina Vincenti», e il testo di Ulderico Bernardi (L’amore vittima della politica, in Una Terra antica. Cultura storia e tradizioni dell’Opitergino, Editrice Santi Quaranta, Treviso, 2014, pp.176-181), che rinarra la vicenda, scevro della retorica patetico-patriottica del Barbiera. Inoltre Maria Teresa Tolotto, conservatrice degli archivi della parrocchia di Oderzo, mi ha permesso di visionare l'atto di morte (23 settembre 1861) di Caterina Vincenti e Teodoro Kiss, scritto personalmente dall'allora decano parroco del Duomo, monsignor Nardi, e mi ha chiarito altre informazioni di contesto sulle "famiglie" Vincenti e Fautario.
Dopo che nel 1859 la Lombardia ma non il Veneto era entrata a far parte del Regno di Vittorio Emanuele II, anche Oderzo, rimasta soggetta all'amministrazione imperialregia austriaca, pur essendo «una piccola, metodica, tranquilla città di guarnigione», conosceva la tensione politica tra le autorità e gli insofferenti della dominazione straniera, esposti ai sospetti polizieschi di complottare in segreto, taluni divenuti esuli volontari, altri rimasti in città, nonostante i rischi di una legislazione (il giudizio statario) che comminava la fucilazione immediata dei sobillatori.
Fra gli esuli volontari nel marzo 1860, per sfuggire a un possibile arresto, si contava Francesco Vincenti, proprietario della farmacia in Borgo Maggiore, coinvolto nei recenti movimenti liberali. Aveva portato con sè il figlio più giovane, ma lasciato nella farmacia e nella casa opitergine la moglie Marianna Fautario e la figlia Caterina. Contemporaneamente ad Oderzo era di stanza Teodoro Kiss, giovane ufficiale ungherese, col suo Reggimento di fanteria Granduca di Toscana, e il suo alloggio privato si affacciava proprio di fronte all’abitazione dei Vincenti.
Sui diciott'anni lei, «di statura più che media, di forme scultoree, nerissimi gli occhi stellanti, nerissimi i capelli, roseo il volto, perle i denti». Ventun anni lui, «biondo, elegante» nell'uniforme attillata. La giovane italiana e il cadetto ungherese «si videro e si accesero d’una di quelle passioni, che avvincono per sempre due vite e le incendiano». La relazione di sguardi, di sognate affettuosità, difficilmente di parole dirette, tanto meno di abboccamenti ravvicinati, poteva nutrirsi solo con lettere clandestine, complice qualche furtivo tramite.
La madre, presto accortasi dell'innamoramento, provò con ogni mezzo ragionevole a distogliere Caterina, invitandola a riflettere sull'impossibilità, come «soluzione onesta», di un matrimonio con un ufficiale nemico che avrebbe dovuto allontanarsi un giorno o l'altro dall'Italia, e sullo sdegno che quel rapporto avrebbe suscitato nelle persone per bene della cittadina, ma soprattutto mettendole davanti la figura del padre esule, costretto ad abbandonare i suoi cari, i suoi interessi, il suo paese a causa della persecuzione di quegli stessi nemici. Risultarono senza effetto sia le suppliche materne, sia le minacce del padre da oltrefrontiera che, avvertito di quella “disgrazia”, in un crescendo di ammonimenti le imponeva di interrompere la tresca.
Neanche la fede e la religione poterono sul suo amore. Caterina Vincenti, molto religiosa ed iscritta ad una confraternita sacra, la Scuola del Santissimo Sacramento, con la prescrizione di pratiche costanti di penitenza, orazione e comunione, sentiva accoratamente l’ambiguità morale della propria passione. Tuttavia, se raccogliendosi spesso in preghiera invocava Gesù e la Vergine Maria di ispirarle «la via per l’onesto compimento di un amore» che non riusciva a sradicare dalla propria mente, non l’aveva invece mai rivelato al suo confessore.
Neppure Teodoro si lasciava sviare dal suo «idolo». A dare senso alla sua vita non potevano bastare le doverose occupazioni militari nella guarnigione, né, negli ozi, le distrazioni come altri suoi camerati. Possiamo ben immaginarlo, sul balcone della sua camera, aspettare in ogni momento possibile «il dono di uno sguardo di quegli occhi che l’avevano stregato».
Non è difficile figurarsi che neanche la famiglia di Teodoro Kiss avrebbe approvato «gli appassionati amori del giovane ufficiale, destinato (secondo le domestiche speranze) ad elevati gradi, con una ragazza appena veduta, con una straniera borghese, di famiglia nemica, non ricca, oscura».
Gli ostacoli al loro amore, apparsi insormontabili, li «decisero ad un atto estremo e disperato». Teodoro in un’ultima lettera chiese a Caterina un appuntamento risolutivo. La giovane, ricordandogli «d’essere una ragazza onesta» ed egli «un ufficiale austriaco», gli rispose che l’avrebbe incontrato, solamente però se egli dopo il ritrovo «si sentisse la forza di ucciderla», così da non permettere che alcuna ombra ricadesse su di lei, devota e onorata. Seguivano le poche istruzioni per l’eventuale convegno amoroso. Se accettava questo disperato patto, non occorreva nessun’altra risposta scritta.
Non ci fu risposta da Teodoro. La sera di venerdì 20 settembre, Caterina si ritirò tranquilla nella sua camera per pregare e chiese alla madre di chiamarla appena pronta la cena. Un’ora dopo, entrando nella camera della figlia, la trovò vuota, ne vide gli orecchini sul cassettone e, sul letto, l’abito poco prima indossato. Presentì la sventura, si precipitò al vicino alloggio di Kiss. Anch’egli non era più in casa, uscito da un’ora per andare non sapevano dove.
La disperazione e le alte grida della madre non lasciavano dubbi sulla fuga dei giovani. Al propagarsi della voce nel paese, cittadini e militari si misero alla ricerca dei due, senza però imbattersi in tracce e segni da loro lasciati, e sfavoriti dal buio della sera autunnale sospesero le perlustrazioni. Gli scomparsi non erano molto distanti. La «mèta della loro fuga disperata» era stato un piccolo fossato in cui nascondersi, «a poco più di un chilometro da Oderzo, e a quattro metri circa dalla strada pubblica.»
Fornì un’informazione decisiva per ritrovarli, il giorno dopo, sabato 21, una contadina che arrivava di buon mattino come di consueto in Piazza Grande per vendere il latte fresco. Udite le voci sulla fuga, riferì di aver sentito, verso l’alba, in vicinanza del suo casolare - prossimo alla località la Geràda sulla strada di Camino - delle grida venire dal vicino Monticano.
Non fu necessario scandagliare a lungo le acque. Dei mugnai, pratici del fiume e delle sue correnti, recatisi per primi su barche al posto congetturato, trassero poche decine di metri più a valle prima il corpo di Teodoro Kiss e poco dopo quello di Caterina, entrambi annegati.
Sparsi sulla riva dell’argine e sul fossato continuavano a parlare i simboli sacri e profani del loro amore: un commovente altare composto con la sciabola del cadetto piantata a terra e il fodero legato col fazzoletto della donna a formare i bracci di una croce, sormontato da un inserto di fiori campestri; «uno scialletto e un mantello, distesi a formare un giaciglio nell’improvvisato nido d’amore» servito per qualche ora; infine le lettere, quella lasciata da Caterina per l’intima amica Enrica Mantovani, quelle di Teodoro per la famiglia lontana e alcuni amici, con allegati, «quali memorie di affetto, vari oggetti preziosi», a spiegare il proposito di morire insieme.
L’autopsia delle salme eseguita lunedì 23 settembre confermò «la morte avvenuta per annegamento». I giornali velarono pietosamente ai lettori altre rilevazioni: «la ragazza fu trovata intatta». Nell'atto di morte monsignor abate Nardi non nascondeva invece che nella ricognizione dei corpi era stata «rilevata la sicura traccia della più lagrimevole pazzia». "Pazzia d’amore" non poteva che esser stata per l'autorità sia militare sia religiosa: il commissario distrettuale imperialregio chiama in causa lo «stato di aberrazione mentale» generato dall’«eccessivo amore»; monsignor Nardi li compiange come «dementati ambedue per prepotente affezione amorosa», giustificando così la concessione di esequie religiose nella stessa chiesa per l’una e l'altro (anch’egli di religione cattolica) e di sepoltura in terra benedetta, pur trattandosi, di fatto, di suicidi.
Nel cimitero di Oderzo, le loro tombe congiunte e la lapide che ne ricordava la tragica fine si conservarono fino al 1882, quando furono rimosse e andarono disperse a causa dell’ampliamento cimiteriale.
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Sulla vicenda di Caterina Vincenti e Teodoro Kiss
- Carlo Raffaello Barbiera, Italiani e ungheresi... d'un giorno: Gli amanti d'Oderzo, in Ricordi delle Terre Dolorose, Fratelli Treves Editori, Milano, 1918, pp. 13-25 | archive.org | Leggi on line | Leggi pdf
- Ulderico Bernardi, L’amore vittima della politica, in Una Terra antica. Cultura storia e tradizioni dell’Opitergino, Editrice Santi Quaranta, Treviso, 2014, pp.176-181 | Reperibilità: santiquaranta.com
- A Oderzo, nel Veneto, è accaduto un fatto lagrimevole e straordinario ..., «La nuova Europa», 5 ottobre 1861
"Sulle lagune", romanzo giovanile di Verga
- Federico De Roberto, Verga ignorato: "Sulle lagune", in Casa Verga e altri saggi verghiani, a cura di Carmelo Musumarra, Felice Le Monnier, Firenze, 1964, pp. 118-134
- Pieter De Meijer, Costanti del mondo verghiano, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1969
- Giovanni Niccolai, Giovanni Verga: I romanzi a stampa del periodo catanese, Edizioni delle comunità di lavoro, 1970
- Gian Paolo Biasin, Il romanzo “Sulle lagune” del giovane Verga, «La Rassegna della letteratura italiana», Vol. 74, 2-3 (Maggio-Dicembre 1970), pp. 394-416
- Giovanni Verga, Sulle lagune, a cura di Giovanni Niccolai, S.T.E.M. Mucchi, Modena, 1973
- Giovanni Verga, I Carbonari della montagna. Romanzo storico | Sulle lagune. Racconto, Saggio introduttivo di Carlo Annoni, Vita e Pensiero, Milano, 1975
- Nino Borsellino, Storia di Verga, Laterza, Bari, 1982
- Giovanni Verga, I Carbonari della Montagna – Sulle lagune, Edizione critica, introduzione e cura di Rita Verdirame, Edizione nazionale delle opere di Giovanni Verga, Vol. 1, Le Monnier, Firenze, 1988
- Norberto Cacciaglia, Personaggi demoniaci nelle opere di Giovanni Verga, in Il vampiro, don Giovanni e altri seduttori, a cura di Ada Neiger, Edizioni Dedalo, Bari, 1998
- Carmelo Ciccia, Venezia e Oderzo nella narrativa di Giovanni Verga, in Saggi su Dante e altri scrittori, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 20092 | literary.it
- Alessandra Gaggero, Famiglia, donna e società nelle prime opere di Giovanni Verga, Literature, Université Stendhal Grenoble, 2012, in particolare pp. 27-36 | Leggi pdf | dumas.ccsd.cnrs.fr