Giampietro De Domini (Sequals, 1811 - Udine, 1886)
Arciprete di Motta di Livenza dal 1841 al 1854, pensatore e patriota del Risorgimento

[a. m.] Giampietro De Domini, nato a Sequals (in provincia allora di Udine ora di Pordenone), il 2 gennaio 1811, all’epoca del Regno d’Italia napoleonico, era il primogenito dei nobili Vincenzo e Marta Licini-Negri. Dopo esser stato seguito da precettori privati a Orcenigo Inferiore dove la famiglia si era presto trasferita, iniziò il ginnasio vescovile a Portogruaro e lo completò a Padova, per passare nel Seminario patavino, come allievo esterno. Ammesso a soli 17 anni alla Facoltà di Teologia dell’Università di Padova, grazie ad apposita dispensa, fu ordinato sacerdote nel 1833. Non priva di influenza sul giovane sacerdote poté essere in quegli anni la figura di mons. Modesto Farina (1821-1856), vescovo di Padova, le cui aperture “liberali”, cioè patriottiche, ne facevano un sorvegliato dalla polizia austriaca.

Ritornato a Portogruaro subito dopo la consacrazione sacerdotale, per insegnare nel Ginnasio, ebbe l’anno seguente la cattedra di filosofia teoretico-pratica, per cui aveva conseguito l’abilitazione presso l’Università di Padova nel 1835. Per sette anni il suo ricco e aperto insegnamento darà una forte impronta a diversi sacerdoti concordiensi di quell’epoca. A giudizio del suo vescovo Carlo Fontanini egli «coprì quel posto con sommo applauso».

Nel 1841 la Deputazione comunale di Motta (come dire il consiglio comunale di oggi) lo invitò espressamente a concorrere a quella arcipretura. Sebbene le sue aspirazioni ed aspettative fossero rivolte piuttosto all’insegnamento che ad altri incarichi ed attività e per di più la chiamata fosse fuori diocesi, aderì, incoraggiato anche dal suo vescovo. Espletati gli esami canonici richiesti e ottenuta l’“approvazione”, entrò nella parrocchia il 2 febbraio 1842[1], attirandosi presto stima e consenso come sacerdote esemplare, preparato e colto, gradito in particolare alla gioventù.

Pochi anni dopo, i moti del 1848 causarono la brusca interruzione della permanenza mottense di don Giampietro De Domini ad aprile e il suo allontanamento per sempre.

Arrivate a Motta il 20 marzo notizie dell’amnistia, della costituzione e dell’istituzione della guardia civica accordate dall’imperatore come conseguenza dell’insurrezione di Vienna, si radunava rapidamente una guardia civica di 450 componenti - praticamente tutti gli uomini validi - e il 22 era pronta a combattere gli austriaci. Nel clima esaltante creatosi il 23 dalla notizia della proclamazione della Repubblica di Venezia, De Domini tiene in Duomo un discorso solenne, subito stampato in 500 copie e distribuito a tutte le famiglie mottensi, arricchito di un Salmo patriottico[2]. L’arciprete, in questo modo, non diveniva solo l’animatore e il cantore del nuovo corso politico, ma ne diventava anche guida. Per coerenza accompagnò come cappellano militare i combattenti, prima verso il Tagliamento ed Udine, poi verso Cornuda, Treviso, Vicenza e infine Venezia. La Legione Trevigiana (corpo franco poi chiamato “Cacciatori del Sile”) di cui fa parte, formata quasi tutta da trevigiani, tra cui parecchi mottensi, è il gruppo più numeroso della V Legione Veneta. «A Treviso fu testimone oculare del massacro in cui vennero trucidati tre ostaggi italiani considerati spie. In quelle giornate si trovavano a Treviso anche il P. Ugo Bassi, P. Gavazzi, Nicolò Tommaseo, Giovanni Prati, Francesco Dall’Ongaro, Gustavo Modena (l’attore) e molti altri patrioti che poi troveranno rifugio a Venezia. […] De Domini seguì a Venezia i propri fedeli-soldati, come cappellano militare, in tutti i movimenti. Partecipò quindi alle battaglie della Cavanella, del Cavallino, di Fusina, del Forte di Marghera, del Piazzale e Ponte della Laguna» (Nilo Faldon, Don Giampietro De Domini arciprete di Motta di Livenza pensatore e patriota del risorgimento (1811-1886), p. 383).

Capitolata Venezia, non ci fu più alcuna possibilità per lui di riprendere posto a Motta né di ottenere un altro pubblico incarico. I sacerdoti patrioti giudicati politicamente compromessi subirono la dura repressione del restaurato potere austriaco. Verso De Domini il maresciallo Radetzky, che si era riservata la questione, fu irremovibile. A nulla valse l’intercessione a suo favore da parte del vescovo di Ceneda mons. Bellati e perfino dei patriarchi di Venezia Monico e Mutti. Altri canonici come i professori del Seminario Lodovico Anselmi e Carlo Nardi, furono trattati con meno durezza, seppur molto tempo dopo, essendosi solo compromessi con la guardia civica o con entusiastiche manifestazioni, non con combattimenti. Ebbero via libera le nomine del primo al Duomo di Conegliano e del secondo al Duomo di Oderzo. Nardi, peraltro, diventerà austriacante.

De Dominici, almeno fino all’annessione del Veneto e del Friuli all’Italia, dopo il 1866, conobbe una vigilata emarginazione. L’elogio funebre per mons. Carlo Fontanini tenuto a S. Daniele del Friuli (1849) gli costò il divieto di qualsiasi predicazione. Nel 1854 rinunciò al beneficio parrocchiale di Motta: poté beneficiare di una minima pensione giornaliera e conservare il titolo di arciprete emerito, desiderato come segno del proprio legame con la gente di Motta «che gli era cara e che gli ricambiava l’affetto». Per il resto della vita si mantenne in povertà, trovando saltuariamente lavoro come precettore presso qualche famiglia, ma sempre sorvegliato dalla polizia austriaca. Anche immergersi nello studio e scrivere molto non era una soluzione sicura, spesso costretto a bruciare le sue carte per timore di inquisizioni. Tuttavia non volle mai scegliere l’esilio. Della propria onestà era incrollabilmente convinto, come si può leggere nella lettera del 31 maggio 1854 al suo vescovo di Ceneda: «Nessuna mia azione è macchiata da fini riprovevoli e disonoranti il mio carattere (di sacerdote), e tutte portano l’impronta di sentimenti, dei quali non mi sarà mai fatto obbligo di arrossire. Io, lo diceva francamente al Sig. Barone de’ Blumfeld (tremendo inquisitore del De Domini, commissario della polizia di Gorizia, ndr): “sono stato onesto prima, durante e dopo la rivoluzione, e posso provarlo. Né mi fu rinfacciato minimamente un tal vanto”».

L’ultimo ventennio della sua vita, dopo la fine della dominazione austriaca, ritrovò un po’ di tranquillità, circondato da venerazione e rispetto. «Ma ormai s’era come abituato a vivere nel silenzio». Dapprima tornò a Cormons, riaccolto fino al 1872 come precettore dalla famiglia Cumano, da dove la polizia austriaca l’aveva allontanato. Chiamato a Treviso fino al 1875 come rettore e insegnante nel collegio Mareschi si trovò in contrasto con il vescovo Zinelli[3], esponente della più rigida intransigenza clericale veneta, senza veder comunque intaccata la sua reputazione di sacerdote dotto e di esemplari costumi.

Ritiratosi in Orcenigo vi rimase fino al 1881, quando passò a Udine, morendo poi in quella città, per apoplessia. Era il 15 settembre 1886.

Ancora in vita ricevette pubblici riconoscimenti del suo nobilissimo patriottismo: fu decorato di medaglia commemorativa delle guerre d’indipendenza; venne anche nominato cavaliere della corona d’Italia. Morto, fu sepolto, per deliberazione unanime del consiglio municipale di Udine, nella tomba destinata agli uomini illustri della città e benemeriti della patria.

[ La biografia qui sintetizzata è una rielaborazione del saggio di Nilo Faldon, Don Giampietro De Domini arciprete di Motta di Livenza pensatore e patriota del risorgimento (1811-1886), in Trevigiani Illustri tra Settecento e Ottocento, Volume II, ISTRIT, Treviso, 2011, pp. 380-387 | Leggi pdf ]

NOTE

  • [1] Il discorso fatto in occasione di questa entrata a Motta fu stampato come Allocuzione d’ingresso all’arcipretale di Motta fatta a’ parrocchiani il dì 2 di febbraio 1842, Venezia 1843.
  • [2] Oggi si stenta a trovare il testo; c'è una copia nella Biblioteca civica di Treviso e una in quella di Padova, quest'ultima con correzioni autografe.
  • [3] «L’aver assunto la direzione del collegio Mareschi e prima ancora la collaborazione a L’Alchimista ed alla Rivista Friulana di impronta cattolico-liberale sta senz’altro all’origine dello scontro con il vescovo di Treviso Federico Zinelli, esponente della più rigida intransigenza clericale veneta. Il vescovo proibì a De Domini di recitare in chiesa o di fronte al clero un discorso funebre per la morte di un alunno del collegio, appartenente ad una famiglia trevigiana notoriamente liberale. Non era certamente in causa il contenuto del discorso (cfr. Giampietro De Domini, Parole dette sul feretro di Camillo Salsa, Treviso 1874) che il vescovo non conobbe e che in realtà era perfettamente ortodosso e pervaso di nobili sentimenti di pietà e di religione, ma emergevano alcune circostanze che ne potevano agevolare la utilizzazione a fini diversi, per es. la conciliazione tra cattolicesimo e liberalismo» (Nilo Faldon, Don Giampietro De Domini arciprete di Motta di Livenza pensatore e patriota del risorgimento (1811-1886), cit., p. 385).

Biografie

  • Nilo Faldon, Don Giampietro De Domini arciprete di Motta di Livenza pensatore e patriota del risorgimento (1811-1886), in Trevigiani Illustri tra Settecento e Ottocento, Volume II, ISTRIT, Treviso, 2011, pp. 380-387 | Leggi pdf
  • Gianni Strasiotto, Onorò la chiesa e la sua terra. Conte Prof. Cav. Don Gianpiero De Domini (1811-1886), «www.ilpopolopordenone.it», 2010(?) | Il testo è ricavato dalla copia cache di Google di db.ilpopolopordenone.glauco.it visualizzata il 26/3/2019, attualmente non più raggiungibile online | Leggi pdf

Le opere di Giampietro De Domini

Tra le opere teoretiche di Giampietro De Domini, ammiratore e - per buona parte - seguace di Antonio Rosmini, si ricordano i due studi che gli studenti e alcuni colleghi docenti del Seminario di Portogruaro fecero pubblicare in occasione del suo ingresso come arciprete nella parrocchia di Motta, chiamato dal consiglio comunale mottense (che allora poteva esercitare il diritto di juspatronato: eleggere in seduta plenaria l'arciprete del duomo e proporlo al vescovo per gli adempimenti del diritto canonico): Sul "Nuovo saggio attorno all’origine delle idee" dell’ab. Antonio Rosmini Serbati e Su d’una prova della religione cattolica. Dissertazione. Delle due opere c'è segnalazione nella coeva Bibliografia Italiana, ossia elenco generale delle opere d'ogni specie e d'ogni lingua stampate in Italia e delle italiane pubblicate all'estero (Anno VIII, Vedova di A. F. Stella e Giacomo figlio, Milano, 1842) | books.google.it/PcDYPzxXHXoC | books.google.it/CKNCAQAAMAAJ:

  • [1474] Su d’una prova della religione cattolica. Dissertazione dell'abate professore Giampiero De Domini pubblicata nel dì che solennemente assume il sacro arcipretal ministero in Motta, Dalla tipografia Vendrame, Udine, 1841. Offerto dai prof. G. B. Bortolussi e G. M. Zannier a monsig. Carlo Fontanini vescovo di Concordia, «Bibliografia italiana», Anno VIII, n. 6, Giugno 1842, p. 151 | play.google.com/PcDYPzxXHXoC
  • [1722] Uno studio sul Nuovo saggio attorno all’origine delle idee dell’ab. Antonio Rosmini Serbati, opuscolo dell'ab. Giampiero de Domini, pubblicato nel di lui ingresso ad arciprete di Motta da suoi scolari, Dalla tipografia di L. Vendrame, Udine 1842, «Bibliografia italiana», Anno VIII, n. 7, Luglio 1842, p. 171 | play.google.com/PcDYPzxXHXoC

Altri scritti dati alle stampe furono quelli sui temi della famiglia e dell'amore degli sposi e alcune composizioni poetiche, tra cui anche un'ode dedicata al vescovo di Ceneda mons. Manfredo Bellati. Diverse opere sono conservate nella Biblioteca Civica di Treviso.