Su le Sagre, e spesso in altri lioghi
Fritolazze mi vendo col zebibo
Che ve imprometto le ghe impata ai Cuoghi.

Alle sagre, e spesso anche in altri luoghi,
vendo frittelle con il cebibo (uva sultanina o anche spezia proveniente da Lipari),
che vi posso assicurare sono buone come quelle dei cuochi
 
Gaetano Zompini (1700-1778), Venditrice di frittelle
 

In questa scenetta, Gaetano Zompini[1] raffigura due nobili che stanno aspettando le frittelle calde, che una giovane popolana sta preparando, usando un’enorme fersora, ossia una padella[2]. Un ragazzino infila le frittelle pronte su un lungo stecco di legno.

Una scena molto simile (un nobile che acquista le fritole da regalare a due belle fanciulle, infilzate su uno spiedo e donate come un mazzo di rose) fu dipinta, intorno al 1750, da Pietro Longhi, abile ritrattista della vita quotidiana del ‘700, in particolare del ceto aristocratico.

 Pietro Longhi, La venditrice di Fritole (quadro custodito presso il Museo di Cà Rezzonico a Venezia).
 

Testimonianze d’epoca

Leggiamo subito la "scena veneziana" (datata 1841) del nobile Pietro Gaspare Moro Lin:

«A Venezia da tempo remotissimo si usa certo dolce mangiare che appellasi fritole. Esse compaiono per tutto ove è festa, e nella quadragesima in ispecieltà si vendono per tutti quasi li campi, poiché li Viniziani non vogliono vedere diserta di fritole la lor mensa quaresimale. Composte di fiore di farina di formento, rimpastate a lievito unito a pignoli e a zucchero, con uva che pendeva dai tralci delle vite calabre, vengono coliate nell’oglio bollente. La fabbrica in cui si fanno è una trabacca, che per assomigliare a quella militare le manca soltanto la tela che serve di padiglione. Questa invece ha il coperto od il tetto di tavole compaginate e messe a piovere. Quadrangolare ha la forma, ed internamente presenta la figura di una stanza. Essa è il Palladio delli fabbricatori che stanvi dentro, i quali da una parte rimpastano e dall’altra friggono in una padella sovrapposta ad un tripode. Il davanti è propriamente il luogo della mostra solenne, e questa mostra dà un quadretto piacevole assai a riguardarsi. Immaginatevi adunque una tavola su cui appoggiano certi piattelloni di peltro, o di stagno lucidissimi, ed internamente con molto gusto disegnati. Alcuni di questi son vuoti, e posti perpendicolarmente sulla suddetta tavola per solo ornamento, altri contengono i pignuoli, le uve, altri finalmente capiscono il dolce mangiare, vogliam dire le viniziane frittole belle ed apparate per colui che ne va ghiotto, e fra uno e l’altro piatto veggonsi pani di zucchero. I principali cuocitori sono notissimi in Venezia, e, superbi di questo lor primato, vollero che sul laboratorio, a distinzione degli altri, s’innalzasse un’asta, avente in cima un cartellone in cui stesse scritto il loro nome; modo laconico ed espressivo assai, imperocché significa: Noi siamo maestri dell'arte, ed abbiamo diritto di essere riveriti sovra gli altri amministrator di frittelle. Hanno essi sempre in sul davanti un pannollino che s’assomiglia al grembial delle donne, che sembra esser venuto allora fuori dal bucato. Tengono in mano un vasetto bucherellato con cui gettano del continuo zucchero sulla merce, ma con tale atto che e’ pare vogliano dire: e chi non sente l’odore, ed il sapore di queste che noi inzuccheriamo? Eglino in questa guisa si mostrano presso la lor panca e loro è tanto andata a china la fortuna del professore che si vedono onorati, non che dalla comun gente, sì ancora dalla civile ed educata, la quale va a pigliare a frotta a frotta le frittelle per avere un saggio di loro bravura».

[Scene di Venezia. Municipali suoi costumi, Opera di Pietro Gaspare Moro-Lin, Volume primo, Venezia, 1841, pp. 207-208 | books.google.it/sYVXAAAAcAAJ]
 

La fritoea in origine

Guerre per rivendicare la primogenitura della fritola e della sua ricetta – anche se da secoli, almeno dal Cinquecento, è un dolcetto tipicamente ed eminentemente veneziano e veneto – è inutile farne.

Se non si vuol accettar antenati fuor di patria, anche per le frittelle – come per altre specialità tipiche della penisola italiana – per prima cosa si possono cercare tracce di origini in epoca romana antica. Farebbero al nostro caso in questo senso i globulos (globi), bocconcini di forma sferica preparati durante la celebrazione dei Saturnalia impastando semola di grano duro e formaggio, cotti nel grasso e conditi con miele e semi di papavero.

Ne troviamo la ricetta Globulos sic facito (“I globi si fanno così”) nel trattato De Agri cultura (o De re rustica) di Marco Porcio Catone il Censore (III sec a.C.):

Globulos sic facito. Caseum cum alica ad eundem modum misceto; inde, quantos voles facere, facito. In aenum caldum unguem indito. Singulos aut binos coquito; versatoque crebro duabus rudibus; coctos eximito; eos melle unguito; papaver infriato: ita ponito → Farai le palline dolci fritte così. Mischierai formaggio di pecora e semola di grano duro nella stessa quantità. Poi farai le palline, grosse quanto vuoi. Scalderai in una padella olio o burro. Le cucinerai una alla volta o due alla volta; le girerai frequentemente con due cucchiai di legno; quando saranno cotte le toglierai; le bagnerai con del miele; sbriciolerai sopra semi di papavero: le servirai in questo modo.
[Marco Porcio Catone Censore, De agri cultura, 79]
 

Oppure sono imparentate con i frictilia elencati da Marco Gavio Apicio (I sec. d. C.) tra i dulcia domestica (“dolcetti fatti in casa”) nella raccolta di ricette De re coquinaria ("L’arte culinaria"):

Aliter dulcia: accipies similam, coques [et] in aqua calida, ita ut durissimam pultem facias, deinde in patellam expandis. cum refrixerit, concidis quasi dulcia et frigis in oleo optimo. levas, perfundis mel, piper aspargis et inferes. melius feceris, si lac pro aqua miseris → Altri dolcetti: prendi fior di farina e falla bollire in acqua calda finché non ne risulta un impasto compatto, poi stendilo. Quando si è raffreddato, taglialo ricavandone come dei bonbon e friggili nel miglior olio. Scolali, irrorali di miele e poi cospargili di pepe. Sarebbe meglio usare il latte invece che l’acqua.
[Celio Apicio, Delle vivande e condimenti ovvero dell’arte della cucina, volgarizzamento con annotazioni di Giambatista Baseggio, Nel privilegiato Stabilimento nazionale di G. Antonelli Editore, Venezia, 1852 | mori.bz.it/gastronomia/Celio-Apicio-De-re-coquinaria]
 

Di frittelle greche sappiamo che si chiamavano enkrís (ἐγκρίς) quando erano cotte nell’olio oppure melitoùtta (μελιτοῦττα) o maza (μάζα) quando erano cotte nello strutto, e in ogni caso si consumavano cosparse di miele.

 

La Zelabia arabo-persiana

Ma, dai globuli e dai frictilia romani-antichi alle fritole veneziane quattro-cinquecentesche, quanti salti ci possiamo immaginare ancora?

Fuor di patria, qualche ricercatore individua due specialità appartenenti alla cucina arabo-persiana, quali la Zelabia e la Zelabia alia (“un’altra zelabia”), trasmesse ai veneziani attraverso le ricette del trattatello Liber de ferculis et condimentis (“Libro delle vivande e dei condimenti”), scritto a Venezia da Giambonino da Cremona[3], un estratto in traduzione latina del Cammino della spiegazione di tutto ciò che l’uomo utilizza (Minhaj al-Bayan fi ma yasta ‘miluhu al-Insan[4]), enciclopedica opera dietetico-gastronomica di Ibn Jazlah, un medico iracheno, nato cristiano e convertitosi all’Islam, vissuto a Bagdad nella seconda metà dell’XI secolo, autore anche di un precedente Tacuinum aegritudinum et morborum, secondo la più accessibile traduzione latina del medico ebreo siciliano Faraj ibn Sālim nel 1280.

La prima si confeziona così:

«Zelebia è migliore delle mandorle confette e di chataiff; ed è digeribile ed è giovevole alla tosse umida ed è anche buona per il petto e per i polmoni, e riscalda un poco e il suo danno si rimuove con melograne o con uno scippo agro, e provoca vapori nei condotti del fegato. E si fa così: lavora ovvero impasta bene una pastella – e falla con il lievito – e dividila in porzioni gettandola con un cucchiaio in una padella dove ci sia olio o strutto, e friggila bene e poi mettila in un recipiente dove ci sia miele, e dai a chi vuoi».
 

L’altra così:

«Zelebia alia cioè un’altra e si chiama zelebia ripiena. E si fa così: prendi la pasta e lavorala con il latte e fai con essa focacce o frittelle, e impastaci dentro mandorle pestate e zucchero e un poco di canfora e fai cuocere in olio disamini [di sesamo] o altro olio o strutto; poi metti nel giulebbe e servi».
 

Tornando in patria, come “ricetta matrice” della fritola si potrebbe addurre quella per la preparazione di frittelle bianche, composte da un impasto lievitato di latte di mandorle e farina, suddiviso in piccole palline da friggere e cospargere di zucchero, che si legge in un manoscritto anonimo del XIV secolo (elaborazione in veneziano di un Anonimo toscano) contenente oltre un centinaio di ricette, conservato nella Biblioteca Nazionale Casanatense di Roma[5]:

«Fritelle bianche. A ffare fritelle bianche, toy late de mandole e formento, e sfarinato destempera insiema e lassali levare, po’ fa le fritelle. Quando sono cocte, polverizali del zucharo e sono bone».
 

A ben vedere una ricetta rimasta quasi invariata nel corso dei secoli, con aggiunta di modifiche fino a quelle degli odierni panifici e pasticcerie riguardo al ripieno: fritole con e senza scorzette di limone o d’arancia, pinoli, uvette, grappa o rum, con crema pasticcera, zabaione, crema di mele, cioccolato o pistacchio…

Le influenze a Venezia si fanno definitivamente riconoscibili lungo il Cinquecento. Nel volumetto Interpretatio arabicorum nominum (“Interpretazione di nomi arabi”) stampato a Venezia nel 1527 il medico bellunese Andrea Alpago, inviato a esercitare l’arte medica presso la comunità veneziana di Bagdad, trattando i termini Alzelabia, Alzelabi e anche Zelabile – tra diversi nomi relativi alla medicina, a prodotti vari, a cibi e specialità gastronomiche – spiega che «Az- zilābiyà», la «pietanza di pasta molto tenera a forma di luna, che viene fritta nell’olio, quindi mangiata con miele o zucchero», molto diffusa in Egitto e in Siria, di cui si parla nel citato libro Minhaj al-Bayan, è chiamata “frittola” presso gli abitanti dell’Italia.

 

La ricetta rinascimentale

Finalmente, testimonianza certa e autorevole è la ricetta rinascimentale della “frittella alla veneziana” inserita nell’Opera (edita a Venezia nel 1570) di Bartolomeo Scappi, “maestro nell’arte del cucinare”, cuoco di cardinali e di papi (Pio IV e Pio V).

Per fare varie sorte di fritelle, & prima per fare frittelle alla Venetiana
FACCINSI bollire sei libre di latte di capra in una cazzuola ben stagnata, con sei oncie di butiro fresco, et quattro oncie di zuccaro, et quattro oncie d’acqua rosa, et un poco di zafferano, sale a bastanza, & come il bollo si comincia ad alzare, si poneran dentro libre due di farina a poco a poco, mescolando continuamente col cocchiaro di legno, fino a tanto che sarà ben soda come la pasta del pane, cavisi d’essa cazzuola, et pongasi nel mortaro di pietra, e pestisi per un quarto d’hora: poi cavisi, & pongasi in un vaso di rame, overo di terra, mescolandola con la cocchiara di legno, o con le mani, sino a tanto che si raffreddi, poi habbinsi ventiquattro ova fresche, ponghisino dentro a uno a uno, mescolando di continuo con la cocchiara di legno, o con le mani, sino a tanto che essa pasta sarà diventata liquida: finito che sarà di mettere l’ove, battisi per un quarto d’hora, sino a tanto che faccia le visiche, & lascisi riposare per un quarto d’hora nel vaso ben coperto in luogo caldo, & ribattasi un’altra volta. Poi habbiasi apparecchiata una padella con strutto caldo, et piglisi della compositione, et pongasi sopra un tagliere, et con la bocca della caraffa, bagnata di strutto freddo, overo col cannone di ferro bianco taglinsi le frittelle, et ponghisino nel strutto dandoli il fuoco adagio, et alcune volte muovasi la padella, facendo che le frittelle si voltino nel strutto senza toccarle, et quando le fritelle comincieranno ad essere cotte creperanno, perché di natura gonfiano, et vengono a foggia di nespole, e molte volte si volgono da se, come si vedrà che haveranno preso alquanto di coloretto, et saranno leggieri, cavisino con la cocchiara forata, et servisino calde con zuccaro sino sopra. D’essa pasta se ne puon fare diversi lavorieri con la siringa, ma vuole essere alquanto più sodetta di quella delle frittelle, dipoi che sarà quella della siringa per fare che la sia migliore, faccisi stare per mezz’hora nel forno non troppo caldo, & servasi con zuccaro sino sopra.
[Opera di M. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di papa Pio quinto, Divisa in sei libri …, Tramezzino, Venezia, 1570, Libro V, Cap. CXXXVI, p. 311-312][6]
 

L'arte o corporazione dei fritoleri

Nel Seicento, nella città lagunare il consumo di frittelle divenne così diffuso e gradito da non poter essere soddisfatto dalla semplice produzione domestica e la preparazione e la vendita divennero appannaggio di veri e propri “maestri fritoleri”, sparsi per la città. Alcuni erano ambulanti, altri – più ricchi – disponevano di baracchini di legno al cui interno, indossando un tradizionale ampio grembiule bianco, lavoravano l’impasto su grandi tavole di legno e friggevano le frittelle in olio o burro in ampie padelle poggiate su tripodi. Sulla parte anteriore del barachin erano lasciati sempre in bella mostra gli ingredienti usati (come farina, uova, mandorle, pinoli e cedro candito) a scopo coreografico e a dimostrazione ai clienti dell’effettiva qualità, ed erano esposte con cura sopra piatti di peltro o stagno finemente decorati le frittelle appena cotte, spolverate di zucchero[7] con un vasetto bucherellato con studiati gesti teatrali, spesso infilzate su uno spiedo, in modo da poterle mangiare calde senza scottarsi le dita[8]. Fieri della propria opera, amavano farsi identificare da un’insegna con inciso il proprio nome.

Diventata la vendita di fritole un fattore economico redditizio, per salvaguardare la loro “arte” (ed i loro affari), regolando rigidamente il mestiere, i fritoleri costituirono nel 1619 una precisa corporazione con tanto di mariegola e specifica insegna, il cui luogo di ritrovo fu dapprima in un edifico vicino a S. Simeon Piccolo, poi dal 1743 nella chiesa della Maddalena, sotto il patronato della Beata Vergine Annunziata, nei pressi della Ca’ d’Oro. Con tale capitolare (statuto conservato all’Archivio di Stato di Venezia) ad ognuno dei 70 componenti venne assegnata e garantita una specifica zona della città in cui esercitare il mestiere, riservato solo ai veneziani, ed il diritto di trasmettere la professione (e le relative prerogative) ai propri figli, in mancanza dei quali, il gastaldo (cioè il capo delle singole arti) provvedeva a nominare un successore, che doveva poi essere approvato dalla magistratura[9].

Nella Repubblica Serenissima questi dolci tanto amati conobbero l’apogeo del successo nel XVIII secolo, quando furono proclamati Dolce nazionale dello Stato Veneto e la loro popolarità si allargò definitivamente alle regioni limitrofe che iniziarono ad assumere questa usanza durante i giorni del Carnevale.

Non è il caso di soffermarsi sulle differenti tradizioni nella preparazione delle fritole anche nella stessa Venezia, è però più di una curiosità citare la versione ebraica cucinata nel ghetto della città, ancora oggi consumata durante la festa del Purim (che si celebra nel 14° giorno del mese ebraico di Adar) nota anche come Carnevale ebraico o “Festa delle sorti”[10].

 

Le frittelle nell’arte

Quella dei fritoleri fu un’istituzione decisamente fortunata, tanto da rimanere in attività per più di duecento anni fino alla fine del XIX secolo ed essere celebrata da artisti e letterati famosi, che forse contribuirono anch’essi alla rinomanza della fritola.

Ne sono esempi il dipinto La venditrice di fritole di Pietro Longhi, del 1755, oggi custodito all’interno di Ca’ Rezzonico, o l’Insegna dell’arte dei Frittoleri attribuito a Gaetano Zompini, datato 1784, ospitato al Museo Correr. Di Zompini abbiamo già citato e riprodotto in apertura anche l'incisione La venditrice di frittelle inserita nella sua raccolta Le arti che vanno per via nella città di Venezia, 1753.

Gaetano Zompini, Insegna dell’arte dei Frittoleri, @MUVE, olio su tela (mm 387 × 521)
Fonte: metropolitano.it/.../MUVE-Gaetano-Zompini-Insegna-dellarte-dei-Frittoleri
 

Anche Carlo Goldoni ci consegna una memoria di questo orgoglio di categoria ne Il campiello, (del 1756). La protagonista, Orsola, è una fritolera e, nell'Atto primo, scena 1, dove alcune donne litigano sui propri meriti, rivendica la propria profession

Orsola: Chi songio? una massera?
Gasparina: Pezo. Una frittolera
Orsola: Vardè! se fazzo frittole? La xè una profession
G
asparina: Co la ferzora in ztrada zè par bon
 
 
* * * * *
 

Note

[1] Gaetano Zompini. Pittore e incisore (Nervesa, Treviso, 1700 - Venezia 1778. Seguace di Sebastiano Ricci (tele mitologiche nel castello di Moschen, Germania; dipinti nell'Archivio dei Carmini a Venezia), incise notevoli serie di acqueforti (Le arti che vanno per via nella città di Venezia, 1753) e diede i disegni per numerose edizioni di classici (Dante, Petrarca, Ariosto) | treccani.it/enciclopedia/gaetano-gherardo-zompini-Dizionario-Biografico
 
[2] Gianfranco Folena, Vocabolario del veneziano di Carlo Goldoni, a cura di Daniela Sacco e Patrizia Borghesan. Regione del Veneto - Fondazione Giorgio Cini, Cultura Popolare Veneta IV, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Venezia, 1993, p. 225.
 
[3] Medico e buongustaio, forse attivo all’Università di Padova, vissuto nel 1200 | Anna Martellotti, Il Liber de ferculis di Giambonino da Cremona: la gastronomia araba in Occidente nella trattatistica dietetica, Schena Editore, Fasano, 2001. Al libro, tuttavia, secondo Edoardo Mori, sono state attribuite troppo fantasiose influenze sulla cucina padana, non giustificate dalla scarsa diffusione dell'opera e ben più spiegabili con l'influenza dei cuochi delle corti meridionali (→ mori.bz.it/gastronomia). In assenza della pubblicazione di pubblico dominio del testo latino tradotto in italiano da Anna Martellotti, si trova on line il testo tradotto all'inizio del Cinquecento in antico bavarese con il titolo Daz Püch von den chösten (utile, peraltro, a integrare lacune del manoscritto latino), tratto dalla tesi di laurea di Verena Friedl presso l'Università Karl Franzens di Graz (2013).
 
[4] Ibn Jazlah, Minhāj al-bayān fī-mā yastaʻmiluhu al-insānb | Internet Archive | Leggi pdf
 
[5] Si tratta di un codice citato spesso, la cui veridicità va comprovata. Se ne discute nella prefazione (pp. VII-XV) a Anonimo veneziano del secolo XIV, a cura di Ludovico Frati, Raffaello Giunti Editore, Livorno, 1899 (la ricetta è la XXVIII "Fritelle bianche", a p. 15) | mori.bz.it/gastronomia/Anonimo-Veneziano-Libro-di-cucina
 
[6] Opera di M. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di papa Pio quinto, Divisa in sei libri …, Tramezzino, Venezia, 1570, cap. CXXXVI, pp. 311-312 | books.google.it/xgFUAAAAcAAJ | Leggi pdf | Altre edizioni contemporanee furono pubblicate nel 1605, 1610, 1622, 1643 → Le diverse edizioni dell'«Opera» di Bartolomeo Scappi
 
[7] Uno dei gesti volutamente teatrali di tali “artisti” delle fritole, quello di spargere da un vasetto bucherellato lo zucchero sulle loro squisite preparazioni, è un dettaglio non trascurabile. Non si può apprezzare tale ostentazione se non si considera che in passato per molti secoli lo zucchero fu merce rara e preziosa, che era necessario importare da terre lontane e perciò usata come dolcificante solo dalle classi più abbienti. La gente comune doveva accontentarsi di usare il miele, senza esagerare nei quantitativi. In un quadro del genere, la Repubblica di Venezia, soprattutto nel periodo della sua massima espansione, rappresentò un’eccezione: grazie alla sua vasta rete commerciale, godeva infatti di forniture di zucchero decisamente più a buon mercato. Molto di questo zucchero “economico” arrivava dalle colonie, tra le quali l’isola di Creta, conosciuta allora come Candia. Lo zucchero “candioto” (perché prodotto a Candia, appunto), veniva impiegato nella produzione dei “candii”, il prodotto che oggi, non a caso, conosciamo come “canditi”.
 
[8] Sono le informazioni che si ricavano dal già citato libro di Pietro Gaspare Moro-Lin, Scene di Venezia. Municipali suoi costumi,Volume primo, Venezia, 1841 | books.google.it/sYVXAAAAcAAJ | Il volume Scene di Venezia. Municipali suoi costumi, Opera di Pietro Gaspare Moro-Lin, Volume secondo, Venezia, 1841, si può leggere qui: books.google.it/COjlQ4xZdFcC
 
[9] I fritoleri cucinavano anche minestre di lasagne o maccheroni e questo fatto aveva acceso, nel 1620, una controversia con la più potente e ricca Arte dei luganegheri. Anche costoro vendevano minestre e si lamentarono della concorrenza sleale, a prezzi più bassi, da parte dei fritoleri. Il governo veneziano alla fine diede ragione a quest'ultimi, riconoscendo loro di esercitare la vendita anche delle minestre con cui recavano "sollievo" ai più poveri (Cfr. G. Grevembroch, Gli abiti de' veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti, e dipinti nel secolo XVIII, Codice del Museo Correr venezia) | venicecafe.it/frittole-gaetano-zompini-le-arti-che-vanno-per-via-nella-citta-di-venezia)
 
[10] Alcuni riferimenti informativi: Ricette ebraiche - digilander.libero.it/aurapi/ricette-ebraiche | Festivistà ebraiche / Frittelle dolci - it.chabad.org/library/.../Frittelle-Dolci | Le antiche tradizioni del Purim - prodigus.it/.../cosmopolifood/le-antiche-tradizioni-del-purim | La festa di Purim - museoebraico.it/la-festa-di-purim | Festività ebraiche - ucei.it/festivita-ebraiche/purim | Pier Cesare Ioly Zorattini, Una salvezza che viene da lontano. I Purim della Comunità ebraica di Padova, «Storia dell'ebraismo in Italia», XXI, Recensione di Alberto Castaldini, Lares, Vol. 67, No. 2 (Aprile-Giugno 2001), Casa Editrice Leo S. Olschki, pp. 399-401 - jstor.org/.../26236540
 
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Alla prova ... del gusto

 
 

La ricetta | cucchiaio.it/ricetta/ricetta-fritole

INGREDIENTI per 35-40 frittelle
 
  • 500 g di farina manitoba
  • 25 g di lievito di birra fresco
  • 150 g di latte tiepido
  • 80 g di burro
  • 2 uova grandi a temperatura ambiente
  • 80 g di zucchero semolato
  • 50 g di grappa
  • 120 g di uvetta sultanina
  • 100 g di pinoli
  • 1 bacca di vaniglia
  • sale
  • olio di arachidi per friggere
  • zucchero a velo per decorare