Alberto Martini e la Divina Commedia:
"visse paradisiaco o infernale nei miei sogni"
Dal 1° maggio al 30 giugno 2022, a Palazzo Foscolo, Oderzo, è predisposto un nuovo allestimento temporaneo dei lavori grafici e pittorici di Alberto Martini che illustrano la Divina Commedia.
Alberto Martini, che nella sua carriera si è dedicato all’illustrazione di varie opere letterarie, ha mantenuto per quarant’anni un rapporto privilegiato con la Divina Commedia di Dante Alighieri, testimoniato dalle 298 tavole conservate nella Pinacoteca Martini che costituiscono il fondo più corposo dedicato all’artista.
Il percorso espositivo evidenza come Martini, dal punto di vista stilistico, si qualifica quale vero grande interprete del poema dantesco, capace di rileggerne l’opera restituendone i singoli episodi attraverso un segno espressionista all’interno di uno spazio peculiarmente sintetico e visionario.
D’altra parte, l’artista ritornerà in molte occasioni sull’opera dell’Alighieri, dichiarandosene profondo estimatore: «Tre volte, nella mia vita, seguii religiosamente il Divino Poeta attraverso i tre mondi … Il Poema Sacro mi fu sempre di grande conforto, a volte mi placò e visse paradisiaco o infernale nei miei sogni».
APERTURA STRAORDINARIA DOMENICA 1° MAGGIO
dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 19.00.
Ingresso con biglietto ridotto euro 4,00.
Museo Bailo di Treviso / Pinacoteca Alberto Martini
Dal 18/12/2021 al 27/03/2022
Ripropongo un post dell'anno scorso - tra storia, arte e leggenda - per la "piccola estate di san Martino" di questi giorni («L’istà de San Martin dura tre dì e un pochetin») ...
«Far San Martin». In una società non più prevalentemente agricola e povera, l'espressione ha quasi perso significato, ma fino agli anni sessanta del Novecento rappresentava ancora un'esperienza patita con sofferenza dalle famiglie contadine e uno spettacolo struggente anche per chi osservava i loro forzati traslochi. L'usanza era atavica. Il quadro del pittore cremonese Vincenzo Campi, Il sanmartino, ritrae uno di questi traslochi nell'ultimo quarto del Cinquecento.
Nel calendario rurale l'11 novembre, ricorrenza di San Martino, faceva da spartiacque tra un'annata agraria, dopo la semina, e la successiva. Quando i contratti di mezzadria o affittanza venivano sciolti, segnava il termine ultimo per lasciare il fondo e il casolare. La disdetta, ricevuta solitamente a maggio, in anticipo di un semestre sulla scadenza, costringeva il capofamiglia all'ansiosa ricerca di un nuovo contratto e una nuova sistemazione nello stesso comune o, al più, tra paesi vicini - se questa riusciva - senza sicurezza di conservare o migliorare le condizioni lavorative e abitative che abbandonava.
«Far San Martin». In una società non più prevalentemente agricola e povera, l'espressione ha quasi perso significato, ma fino agli anni sessanta del Novecento rappresentava ancora un'esperienza patita con sofferenza dalle famiglie contadine e uno spettacolo struggente anche per chi osservava i loro forzati traslochi. L'usanza era atavica. Il quadro del pittore cremonese Vincenzo Campi, Il sanmartino, ritrae uno di questi traslochi nell'ultimo quarto del Cinquecento.
Nel calendario rurale l'11 novembre, ricorrenza di San Martino, faceva da spartiacque tra un'annata agraria, dopo la semina, e la successiva. Quando i contratti di mezzadria o affittanza venivano sciolti, segnava il termine ultimo per lasciare il fondo e il casolare. La disdetta, ricevuta solitamente a maggio, in anticipo di un semestre sulla scadenza, costringeva il capofamiglia all'ansiosa ricerca di un nuovo contratto e una nuova sistemazione nello stesso comune o, al più, tra paesi vicini - se questa riusciva - senza sicurezza di conservare o migliorare le condizioni lavorative e abitative che abbandonava.
Finiti i lavori dei campi, diviso e venduto il raccolto, passati i primi giorni freddissimi di Ognissanti e dei morti, non era infrequente una mitigazione della stagione grazie alla piccola "estate di San Martino", così detta dalla leggenda di Martino futuro vescovo di Tours(1), che vedendo un povero infreddolito – Gesù stesso, secondo alcune narrazioni – aveva diviso in due il mantello, mentre la temperatura dell’ambiente si alzava per evitargli il freddo, come gratitudine per il buon gesto. I contratti agrari tenevano conto del fatto che, attorno all’11 novembre, la temperatura si alzava di qualche grado e rendeva i trasferimenti più facili.
Si materializzavano allora per le vie i mesti cortei di chi "faceva San Martino": il tiro di cavalli o di asini, il carro sovraccarico e debordante di mobili, di masserizie, di attrezzi, della cassapanca col vestiario, della legna per l’inverno, di polli nella stia e di conigli nella gabbia, di bambini issati sopra a tutte le suppellettili alla meglio, gli adulti incamminati a piedi dietro le cose trasportate ...
La leggenda di Martino
Il cavaliere Martino, distante ancora poco meno di quattro giorni di viaggio dalla sua casa alla quale stava tornando, aveva incontrato lungo la strada innevata un povero vecchio infreddolito senza neppure un cencio che gli coprisse le spalle e, impietosito, aveva diviso in due il proprio mantello donandogliene metà. Quel vecchio ignudo secondo alcune narrazioni era Gesù stesso, quello che dirà ai misericordiosi: «Ero ignudo e voi mi avete vestito». Nell'atto stesso che il soldato porgeva al povero la metà del suo mantello, tutta la neve che era in terra disparve, la terra si rasciugò, l'aria si fece calda, le piante sparsero la foglia, gli uccelli si misero a cantare: insomma una vera estate in pieno novembre. Durò così fino a sera, finché raggiunto l'albergo per pernottarvi ricominciò a nevicare.La mattina il mondo era nuovamente imbiancato.
Martino sperimentò il "miracolo" quanto durò quel viaggio fino a casa, perché ognuno dei giorni successivi gli si sarebbe ripresentato un povero viandante bisognoso di vestiario nella morsa del freddo: al secondo donò l'altra metà del mantello; per il terzo, non avendo più mantello, si privò della sottoveste; al braccio nudo tremolante dell'ultimo incontrato offerse infine la camicia, l'ultimo avanzo dei suoi vestiti. Ogni volta si dissolveva la neve e scompariva il gelo, l'inverno cedeva improvvisamente all'estate.
Martino, incredulo di ciò che capitava dopo ogni suo atto di misercordia, dubitava di sognare. Giunto finalmente a casa, Cristo gli apparve nottetempo: era ricoperto della metà del suo mantello militare e diceva agli angeli e ai santi che gli erano d'intorno: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro.
È il traffico colorito e nello stesso tempo dolente di un trasferimento di contadini il giorno di San Martino. Il soggetto è raro e non trova precedenti in altre composizioni cinquecentesche né italiane né straniere. Efficaci sono anche le soluzioni compositive.
Una famiglia, alla destra di chi osserva la scena, ha ormai radunato all’esterno della cascina in cui ha vissuto la passata annata agraria tutti gli oggetti e gli animali ed è probabilmente pronta alla partenza. In fondo alla strada un altro nucleo famigliare sta arrivando a destinazione e imbocca il portale di un edificio rurale.
Nella cosiddetta "estate di San Martino" le giornate sono tornate miti e sembrano una rinnovata primavera. Per rendere questa sensazione la donna ha braccia nude e le colombe tornano in amore. I colori sono ben contrastati, ancora fuori dal livellamento delle brume autunnali. In questo bizzarro giorno novembrino ancora caldo o tiepido il pittore fa contrastare «con il fondo scuro, quasi temporalesco, la luce del sole concentrata solo in un punto, quello in cui i contadini accumulano le poche cose, per poi partire».
Nella Sala degli Affreschi di Palazzo Piloni a Belluno, usata comunemente dall’amministrazione provinciale per riunioni e convegni, i dipinti che affrescano le pareti, scoperti nel 1901 durante i lavori di restauro del palazzo ma risalenti al ‘500, sono di mano di Cesare Vecellio (1521-1601), cugino di Tiziano. Vi sono rappresentate “Le quattro stagioni”, ma in esse - dato originale rispetto alle molte varianti esistenti sul tema - particolare attenzione è data alle vesti delle persone ritratte.
Sala degli affreschi - Palazzo Piloni Belluno | Fonte: corrierealpi.gelocal.it
Scopriamo le semplici vesti dei contadini impegnati nel lavoro nei campi d’estate e nella raccolta dei frutti in autunno, gli abiti drappeggiati delle fanciulle protagoniste della primavera e i più pesanti vestimenti signorili nella scena invernale - unica ritratta in un interno - durante un banchetto, allietato da una musicante, in cui da una tavola riccamente imbandita i commensali si servono con le mani.
In quest'ultima inquadratura, da una finestra (o rimandati da uno specchio) s'intravedono simboli della città di Belluno come il Palazzo dei Rettori e il Duomo, e, fra altri personaggi, un anziano signore con la barba bianca, secondo alcune interpretazioni il conte Odorico Piloni stesso, committente dell'affresco al conterraneo Cesare Vecellio, poi continuato dal figlio Giorgio Piloni.
Fonte: corrierealpi.gelocal.it |
Non c’è da stupirsi per questi abiti così dettagliati, poiché proprio Cesare Vecellio si era dedicato ad un'opera, frutto di una approfondita ricerca durata molti anni, sugli “Habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo” [← it.wikipedia.org], una storia del costume che gli varrà molti riconoscimenti dai posteri. Il pittore cadorino realizza i disegni degli abiti, commentandoli con una descrizione che non si ferma al solo vestiario, ma diviene una riflessione sulla società e sulla vita economica, religiosa e politica. Nel 1593 stampò anche una corposa serie di schemi per ricami e merletti, Corona delle nobili et virtuose donne, raccolta in quattro volumi.
Cesare Vecellio, Ritratto di famiglia; Venezia, Museo Correr | Fonte: it.wikipedia.org/wiki/Cesare-Vecellio
Cesare Vecellio, nato in Cadore intorno al 1521 da una famiglia illustre di mercanti, secondo cugino del famoso Tiziano, è stato un artista eclettico, pittore, disegnatore, incisore, miniaturista, dedito anche alla ricerca dei costumi e all'attività di stampatore.
Si sa pochissimo della sua formazione; forse cominciò l'apprendistato artistico nella bottega di Francesco Vecellio, fratello di Tiziano, poi ha continuato a Venezia, presso Tiziano stesso. La sua prima attività non è distinguibile all'interno della bottega del grande maestro; sicuramente vi ha perfezionato la sua tecnica grafica e pittorica.
Agli anni cinquanta risalgono le prime opere pittoriche che testimoniano in quegli anni un’attività indipendente, i ritratti della famiglia di Odorico Piloni, amico e grande mecenate di Cesare. Nello stesso periodo Cesare inizia un'opera che lo impegnerà per più di trent'anni, gli scomparti del polittico della chiesa arcipretale di Lentiai, ideato probabilmente da Tiziano.
Tra le numerose opere realizzate da Cesare negli anni seguenti, sono da ricordare le portelle d'organo per la chiesa arcidiaconale di Pieve di Cadore, oggi visibili dietro l'altar maggiore, e la originale impresa della decorazione dei tagli dei libri della biblioteca (172 volumi) di Odorico Piloni; per la stessa famiglia Piloni l'artista realizzò l'affresco con le quattro stagioni per il loro palazzo bellunese e gli affreschi nella villa di Casteldardo presso Trichiana, oggi perduti. Nel frattempo si dedicò alla decorazione della chiesa di Lentiai, che era in fase di ristrutturazione, con affreschi, tre pale d'altare e i dipinti per il soffitto.
All'ottavo decennio del cinquecento è attestata un'attività tipografica, con la pubblicazione di xilografie e piccoli opuscoli, mentre continuano le commissioni a Venezia e nel bellunese, come la pala dei Santi Fabiano e Sebastiano nel Duomo di Belluno e l'Ultima Cena per la famiglia Genova nella chiesa arcidiaconale di Pieve di Cadore.
Le ultime opere rilevanti dell'artista sono la pala per la chiesa di Tarzo, presso Treviso, e i due dipinti donati alla Magnifica Comunità di Cadore, di cui si conserva la Dedizione del Cadore a Venezia. Cesare Vecellio muore a Venezia il 20 marzo 1601 "da febre zorni 10".
[Tratto da Cesare Vecellio, un artista al servizio del gusto - Libri, dipinti, costumi - Guida alla mostra di Pieve di Cadore (BL), a cura di Alessandra Cusinato, Edizioni Provincia di Belluno, Belluno, 2001]
Treviso | 30 novembre 2019 - 31 maggio 2020 | Museo di Santa Caterina
Un percorso tematico e cronologico tra la collezione di "still leffen – still leben" e "still life" ("nature morte", detto nelle meno felici denominazioni francese e italiana) del Kunsthistorisches Museum di Vienna, una categoria di opere d’arte che ha come soggetto scene di mercato e di cucina, mazzi di fiori, frutta, strumenti musicali, accessori per la caccia, ossia pitture che ritraggono oggetti immobili al naturale. Il termine nordeuropeo mette in rilievo la dimensione contemplativa di queste rappresentazioni che invitano lo spettatore alla meditazione sulla caducità delle cose umane.
Il genere si è sviluppato tra la fine del Cinquecento e lungo tutto il XVII secolo a livello europeo. Sono esposti Francesco Bassano, Lodovico Pozzoserrato, Frederik van Valckenborch, Jan Baptist Saive, Jan Brueghel, Pieter Claesz, Willem Claesz Heda, Jan Weenix, Gerard Dou, Evaristo Baschenis, Gasparo Lopez dei Fiori, Elisabetta Marchioni ...
Completa la mostra una sezione dedicata alla fotografia contemporanea - con opere di David La Chapelle, Martin Parr, Robert Mapplethorpe, Nobuyoshi Araki, Franco Vimercati, Hans Op De Beeck - che testimonia come il tema della natura morta sia presente negli scatti di alcuni degli artisti più importanti e celebrati a livello internazionale.
Il Rinascimento di Pordenone, Con Giorgione, Tiziano, Lotto, Jacopo Bassano e Tintoretto
Mostra a cura di Caterina Furlan e Vittorio Sgarbi
Da venerdì 25 ottobre 2019 a domenica 2 febbraio 2020
Pordenone | Galleria d'Arte Moderna, Museo Civico d'Arte e Duomo di San Marco
Alla Galleria d'Arte Moderna sono esposti più di 50 dipinti e una ventina di disegni autografi del Maestro. Accanto a queste opere, dipinti di esponenti di spicco della pittura veneta e padana del XVI secolo: da Giorgione, Tiziano, Sebastiano del Piombo, Lotto, Romanino a Correggio a Dosso Dossi, Savoldo, Moretto, Schiavone, Bassano, Tintoretto, Amalteo e altri ancora, senza dimenticare i suoi precursori e i suoi allievi o seguaci.
Al Museo civico d’Arte è possibile scoprire altri dipinti e opere del Pordenone visitando il percorso permanente del secondo piano. Al piano terra invece, è allestita la sezione documentaria relativa all’artista e una selezione di volumi d’arte.
Le opere di questa mostra provengono da importanti musei italiani e internazionali, oltre che dai musei e chiese del territorio friulano, veneto e lombardo.
© 2024 am+