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Onorò la chiesa e la sua terra
Conte Prof. Cav. Don Gianpiero De Domini (1811 - 1886)

E' da poco uscito il saggio "Anche i preti hanno fatto l’Unità d’Italia" del prof. don Santino Spartà, già giornalista della Radio Vaticana e del settimanale "Oggi". E’ il primo libro-analisi sui preti-patrioti del Risorgimento e nella presentazione l’autore cita Papa Leone XIII: "La prima legge della storia è di nn mentire"; la seconda - afferma l’autore - è di avere il coraggio di dire la verità.
In diocesi di Concordia i preti che hanno contribuito a fare l’Italia non sono mancati, ma di loro, come altrove, nei lavori finora dati alle stampe, non si trovano che alcuni cenni.
La figura di quello che sembra essere stato il primo insegnante del Seminario diocesano a trasmettere agli studenti la sua visione politica di adesione agli ideali nazionali venne messa alla luce in uno scritto del 1898 (pubblicato nel 1904) del prof. mons. Carmelo Berti (1840-1905), per parecchi anni Cancelliere vescovile e insegnante di lettere greche e italiane, geografia e storia nel ginnasio: si tratta di don Giampiero De Domini, figlio del conte Vincenzo e di Maria Lacini nato a Sequals il 14 gennaio 1811.
Non sappiamo praticamente nulla dei suoi primi anni: probabilmente ricevette 1’istruzione di base privatamente, per poi passare al Seminario di Portogruaro a svolgere il consueto corso di studi degli aspiranti sacerdoti. Concluso il ginnasio e vestito l’abito ecclesiastico, frequentò l’Università di Padova, dove ottenne la laurea in filosofia e poi, ordinato sacerdote, divenne professore nel suo Seminario, dove riuscì a svecchiare un secolare tipo d’insegnamento, introducendo nuovi metodi e maggiori agganci con la realtà della vita. La sua profonda dottrina e la chiarezza nell’esposizione suscitarono immediatamente l’ammirazione dei numerosi discepoli, anche se il suo temperamento "non ardente né audace" lo portava a non attirare l’attenzione su di sé, soprattutto perché la vita non era certo facile a causa dei sospettosi controlli ministeriali. Da un lato la funzione della Chiesa era tenuta in massima considerazione dal Governo austro-ungarico, i parroci avevano ben precise funzioni amministrativo-burocratiche (anagrafe, controlli sull’assistenza e scuola comunale) con relativo stipendio da parte dello Stato, i seminari erano scuole pubbliche ed al Seminario di Portogruaro gli aiuti economici non mancavano, dall’altro era imposta una totale subordinazione alla "Sacra Maestà Imperiale".
I migliori tra gli alunni del conte don De Domini avevano però la fortuna di continuare gli studi nelle Università di Padova o Pavia e alcuni riuscivano ad arrivare fino al "Sublime Istituto" di Vienna, dove aleggiavano spinte al cambiamento verso una maggiore libertà. Nel clero del Lombardo-Veneto, e quindi anche in quello del portogruarese, si creò una corrente liberale e rosminiana, con insegnanti stimati e dai vivi sentimenti patriottici, destinata però in breve tempo ad essere emarginata.
Don De Domini, trascorsi alcuni anni dediti all’insegnamento, accettò di reggere l’importante parrocchia di San Nicolò di Motta di Livenza dove - superato l’esame sinodale - fece il suo ingresso solenne nel 1842. Quando, nel marzo 1848, anche a Portogruaro giunsero le notizie sulle insurrezioni italiane ed europee, i seminaristi furono i più attivi in campo e parteciparono alle iniziative degli insorti al moto di indipendenza, insieme ad alcuni insegnanti e con l’approvazione del vescovo mons. Carlo Fontanini, ormai cieco, che dal pergolo dell’episcopio benedisse i dimostranti. Don De Domini non solo esultò per la libertà conquistata, ma, pieno di entusiasmo, lasciò la cura d’anime a Motta e si recò a Venezia, dove il Governo Provvisorio di Daniele Manin, con i decreti del 1 settembre e del 27 novembre lo nominò "Cappellano d’armata della Nuova Repubblica Veneta di San Marco". Intanto a Portogruaro, in data 16 aprile 1848 i preti patrioti avevano pubblicato un manifesto di protesta, dal linguaggio ardito e con accuse al governo e ad alcune persone, compreso il vicario apostolico mons. Francesco Rizzolati (ritenuto troppo vicino alle autorità austriache), all’ex delegato comunale, ecc., ma con parole di stima nei confronti del vescovo "amato dal suo popolo, adorato dal suo clero, benedetto da tutti". Purtroppo la stagione della libertà fu breve, inferiore a due mesi, mentre Venezia resistette per ben 17 mesi e capitolò solo il 22 agosto 1849.
Il desiderio di De Domini di ritornare a reggere la sua parrocchia rimase tale per il veto dell’autorità politica, perciò rientrò in diocesi e si stabilì a Orcenico di Sotto, in una casa di proprietà del padre. La sosta fu breve, il vescovo lo nominò mansionario a Murlis, dove trovò dimora presso la casa del giuspatrono, signor Biglia.
Il 1° dicembre 1849 lesse a San Daniele l’elogio funebre del Vescovo mons. Carlo Fontanini, nel trigesimo della morte, i cui contenuti gli crearono qualche problema con la gendarmeria austriaca.
La normalizzazione della vita in diocesi passò attraverso la repressione, con la pretesa di allontanamento dal Seminario, avvenuta nel 1850, degli insegnanti don Antonio Cicuto, don Mattia Zannier e don Giovanni Battista Bortolussi, mentre un altro sacerdote di idee liberali, don Giacomo Pittana, preferì allontanarsi spontaneamente.
Il Seminario in questo periodo è costantemente controllato, basta qualche allusione all’italianità e arrivano le conseguenze. E’ il caso del prof. don Domenico Fabrici (1833-1899), nel 1860 docente di sacra teologia: dopo un solo anno d’insegnamento divenne professore emerito e fu mandato cappellano a San Giorgio sopra Valvasone, oggi della Richinvelda (sarà poi curato di Pinzano e parroco di Azzano, dove fonderà la Cassa di Prestiti, coadiuvato dal cappellano Giovanni Maria Concina, il futuro padre della cooperazione cattolica).
Intanto don de Domini nel gennaio 1854 decise di trasferirsi a Cormons, per fare il precettore nella famiglia del triestino dott. Costantino Cumano e alla fine dell’anno rinunciò a Motta, ottenendo una pensione giornaliera di lire 1,15.
Scriverà poi di aver passato a Cormons il più bel periodo della sua vita, interrotto da una rigorosa perquisizione dei gendarmi dell’Imperial Regio Governo, senza effetto alcuno, ma con l’obbligo di abbandonare il paese. Rientrò ad Orcenico, ma a seguito delle istanze del Cumano nel 1856 poté ritornare a Cormons. Nel 1859 il suo protettore subì un processo politico, dal quale uscì con un non consta ma con l’intimazione di allontanare definitivamente il dotto sacerdote dalla propria casa.
Tornato ancora una volta a Orcenico di Sotto si dedicò allo studio e alla cura di poche anime nella vicina chiesetta di Cusano, con l’ufficio di mansionario.
Nel 1864, dopo la fallita sollevazione prevista dal programma di Giuseppe Mazzini - padre del Risorgimento - per trascinare l’Italia ad una guerra contro l’Austria, il nostro sacerdote accettò di dare ospitalità al dott. Antonio Andreuzzi, medico a San Daniele, promotore e protagonista dei moti degli storici "Moti di Navarons" - l’audace e sfortunata insurrezione antiaustriaca - dopo che questi aveva appena sciolto le varie bande di patrioti.
Le vicende dell’Andreuzzi sono ben note. Condannato a morte, dopo un periodo in cui rimase nascosto in una grotta sul monte Dodismala (Chievolis) trovò rifugio presso l’arciprete di Travesio, quel prof. Gio Battista Bortolussi allontanato dal Seminario quattordici anni prima, che lo rimise in forze e lo fece portare a Castions di Zoppola, ospite provvisorio del dott. Girolamo Marcolini, un patriota che fingeva buoni rapporti con i governanti. Nottetempo, da Castions 1’Andreuzzi raggiunse la casa di don de Domini, dove giorni dopo lo raggiunse un giovane udinese, certo Enrico Farra, per pianificare l’allontanamento del ricercato dai territori veneti. Da Udine arrivò al sacerdote un baule con oggetti adatti a cambiare aspetto del medico di Navarons: veste e tabarro da prete, cappello tricuspide, breviario, occhiali scuri, tabacchiera.
Effettuato il travestimento i due "preti" arrivarono alla stazione di Casarsa, superando facilmente i posti di controllo militare, anche perché 1’Andreuzzi fu scambiato per l’arcidiacono di San Vito. Salito sul treno, dove all’interno di uno scompartimento il Farra attendeva l’eroico patriota friulano, riuscirono a passare insieme il Po a Pontelagoscuro. Tutto andò liscio fino alla fine, anche per l’efficienza dei Comitati segreti per l’emigrazione dei ricercati, presenti sul treno e nelle stazioni, e 1’Andreuzzi riuscì a raggiungere il figlio Silvio a Bologna (partecipò poi ai moti garibaldini del 1866 come capitano medico).
Nel 1865 don de Domini fu chiamato a Dignano, precettore in casa del signor Giuseppe Clemente (che più tardi parlerà con "riverenza, plauso e rimpianto" del professore tanto amato dai suoi figli e familiari); tre anni dopo ritornò nella famiglia Cumano a Cormons, dove il 15 febbraio 1870 gli fu conferita la Medaglia commemorativa della guerre d’indipendenza. Dal 1872 al 1875 insegnò religione nel collegio "Mareschi" di Treviso, quindi ritornò ad assumere la mansioneria di Cusano. Nella primavera del 1881, raggiunto il settantesimo anno, fissò la sua dimora presso una famiglia di Udine. Qui nel dicembre successivo venne nominato cavaliere della Corona d’Italia.
A fine estate del 1886, mentre si accingeva a partire per Napoli per partecipare ad un’adunanza generale dei reduci delle guerre d’indipendenza, "veniva colpito dalla morte": era il 15 settembre. Fu sepolto nel cimitero del capoluogo friulano nella tomba riservata agli "uomini illustri della città ed ai benemeriti della nazione", per le "rare doti di mente e di cuore del pio sacerdote, il probo cittadino, decoro della società e della Patria".
Beneficiò i poveri e la chiesa di Orcenico di Sotto. Le sue pubblicazioni, oggi quasi tutte introvabili, furono ben elencate dal prof. mons. Carmelo Berti con questo giudizio: "Robusto nello stile, classico nella forma però senza pedanteria, romantico nella idea senza leggerezza, temprato sempre alle leggi eterne del buono e del bello".

 Gianni Strasiotto

 


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